Il sogno è l'ago della bilancia, il rischio l'ago nel pagliaio. Il Nuovo Centrodestra arriva al tavolo delle consultazioni che preludono al governo Renzi con l'aria di chi ha in mano carte pesanti. Alfano e soci, appena usciti dal Quirinale, esibiscono una poker face da duri: «Non possiamo immaginare di cambiare natura all'esecutivo spostandolo a sinistra: se sarà così, noi diremo no». Poi altri moniti sparsi: «Se il programma è grande non ci deve essere fretta: non si può chiudere in 48 ore». E ancora: «Noi siamo mossi da buona volontà ma non siamo di assicurare un lieto fine. Vogliamo vederci chiaro». E poi: «Noi siamo gli avvocati del ceto medio e il ceto medio dovrà essere protagonista». E infine: «Si deve vedere con grande nitore il tratto di penna del centrodestra». Intenzioni minacciose che, stringi stringi, servono a strappare un buon bottino in termini di poltrone governative, evitando che l'inevitabile ridimensionamento rispetto al governo Letta diventi decimazione. Alfano ha intenzione di chiedere a Renzi di confermare lui come vicepremier, di avere due ministeri (il Viminale e la conferma di uno tra Beatrice Lorenzin alla Sanità e Maurizio Lupi alle Infrastrutture), e di strappare almeno un viceministro e due sottosegretari. Due gli assi in mano ai fuoriusciti del Pdl: il fatto che a Palazzo Madama la sovradimensionata pattuglia di alfaniani (31 senatori) è numericamente fondamentale per la fiducia; e il fatto che Renzi deve fare presto e bene. Il sindaco d'Italia però non ci sta a farsi tenere per la collottola da un partito che al momento pesa più o meno il 4 per cento. E malgrado siano vere sia la fretta sia la necessità di evitare un fallimento, è convinto che quello di Alfano sia un bluff. Per cui pare intenzionato di andare a vedere facendo al Ncd una proposta al ribasso: forse il vicepremierato, di certo un ministero minore (Lorenzin o Lupi). Stop. Prendere o lasciare. Anche perché l'alternativa è il voto, che restituirebbe agli «enneciddini» la vera dimensione parlamentare.
C'è poi il fattore-N. Vale a dire Napolitano. Alfano è convinto che in caso di showdown il Colle si schiererebbe con lui. Ma la storia recente insegna che vantare un feeling con Re Giorgio non porta per niente bene: Gianfranco Fini, che anni fa pensò di ribaltare Berlusconi con l'imprimatur di Napolitano, ora legge il giornale ai giardinetti. Mario Monti, fortissimamente voluto a Palazzo Chigi dal capo dello Stato, nel giro di un anno è passato dal ruolo di salvatore della patria all'irrilevanza politica. Ed Enrico Letta, convinto di essere blindato da Napolitano, è stato licenziato dallo stesso con sovrana nonchalance. Il presidente è un amante assai volubile, aduso all'usa-e-getta dei partner. E Alfano farebbe bene a non contare nemmeno sulla forza dei numeri. Si racconta di un Denis Verdini impegnato a dirottare qualche «responsabile» del Pdl e gli undici senatori del gruppo delle autonomie verso Renzi, ciò che, pallottoliere alla mano, ridurrebbe gli alfaniani in un amen all'inutilità. Una manovra smentita dai diretti interessati, che però un segnale chiaro lo lancia: tutto può succedere, nessuno è al riparo da sorprese. Ma Alfano deve fronteggiare anche uno scontro generazionale interno al partito. I «seniores» non vedono perché solo i quarantenni dovrebbero poter ambire a una poltrona a Palazzo Chigi.
La fronda interna è guidata da Roberto Formigoni, che non a casa ieri ha alzato il tono dello scontro con Forza Italia, twittando una «pernacchia» a Berlusconi che aveva definito gli alfaniani «utili idioti». Ma il mal di pancia colpisce anche Fabrizio Cicchitto, Renato Schifani e Carlo Giovanardi. Sessantenni alla riscossa. Il nuovo che avanza.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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