Milano Giovedì, al più tardi venerdì: poche decine di ore separano Silvio Berlusconi dalla sentenza che potrebbe segnare, dopo più di quattordici anni, la fine dell'inviolabilità della sua porta (per usare una metafora calcistica). Da ieri sono in camera di consiglio i tre giudici che devono stabilire se l'ex presidente del Consiglio sia colpevole di avere frodato il fisco tra il 2000 e il 2001, ordinando ai manager di Mediaset di truccare bilanci e dichiarazioni dei redditi. E se insieme a lui sia colpevole Fedele Confalonieri, braccio destro della sua carriera di imprenditore e oggi presidente del suo gruppo. Per Berlusconi sarebbe la prima condanna dal 1998, anno della sentenza All Iberian.
Ieri sono stati i legali di Confalonieri a pronunciare le ultime arringhe prima che il tribunale presieduto da Edoardo d'Avossa si ritirasse in clausura in una caserma dei carabinieri per tirare le somme di un processo durato oltre cinque anni: ma basato interamente, secondo l'avvocato Alessio Lanzi, su un presupposto inesistente, e cioè che il costo dei diritti dei film da trasmettere in tv, comprati da Fininvest attraverso il mediatore Frank Agrama, venissero gonfiati per frodare il fisco e produrre fondi neri. Mentre invece, ha detto il professor Alessio Lanzi, il prezzo «era giusto e congruo, e rispettava il valore effettivo». E l'avvocato Vittorio Virga ha avuto parole severe per la Procura della Repubblica: «L'avviso di garanzia al dottor Confalonieri è stato inviato undici anni fa. Undici anni in cui non è stata portata nessuna prova, tant'è vero che in tutta la sua requisitoria il pm ha pronunciato il nome di Confalonieri solo sei volte. Io chiedo: come è stato possibile che Confalonieri venisse tenuto in sospeso per tutto questo tempo? Una cosa è certa, ed è che i pubblici ministeri hanno violato clamorosamente la Costituzione e la presunzione di non colpevolezza».
Per Confalonieri, il pm Fabio De Pasquale ha chiesto la condanna a tre anni e quattro mesi di carcere, poco meno dei tre anni e otto mesi chiesti per Silvio Berlusconi. Per arrivare a chiedere la loro condanna il pm ha dovuto non solo spiegare al tribunale come e perché i prezzi dei film fossero stati gonfiati, ma anche quali prove esistessero della diretta responsabilità dei due imputati: compito particolarmente arduo per quanto riguarda Berlusconi, che all'epoca dei fatti aveva già lasciato il gruppo per dedicarsi alla politica.
Ma il Cavaliere, ha sostenuto il pm milanese, in realtà non ha mai fatto un passo indietro dagli affari di famiglia: «Chi ha detto che dopo la discesa in politica Berlusconi ha smesso di seguire i suoi affari? Questa affermazione fa a pugni con tutto quello che leggiamo sui giornali. In quel periodo poi Berlusconi è rimasto presidente del Consiglio sei mesi, in cosa sarà stato così assorbito da non poter trattare i suoi affari?».
«Su quei soldi ci sono le impronte digitali di Berlusconi», aveva concluso De Pasquale, apparentemente sicuro del fatto suo. Ma negli ultimi mesi la strada per l'accusa si è fatta più complicata del previsto, perché due inchieste sostanzialmente uguali hanno visto sconfessate dai giudici le tesi dell'accusa. A Milano, nel processo Mediatrade, anch'esso sull'acquisto dei diritti tv, la posizione di Berlusconi è stata archiviata dal giudice preliminare «per non avere commesso il fatto».
Troveranno il modo, i giudici milanesi, di ribaltare queste sentenze? E di scrivere insieme alla sentenza anche le sue motivazioni, per evitare che tutto finisca prescritto?
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