Per essere una da sempre dalla parte degli ultimi, fare la prima dei primi sta piacendo assai a Laura Boldrini, di professione presidente della Camera. Solo che sedere sulla poltrona che fu di Sandro Pertini e Nilde Iotti (va bene, anche di Pierferdy Casini e Gianfranco Fini) non è un pranzo di gala. Non basta indossare sorrisi e tailleur e aver sempre sotto mano il prontuario del buon samaritano. Tra incertezze, gaffe e inesperienza la terza carica dello Stato era finita in un cono d'ombra inaccettabile per chi, dopo decenni dedicati ai rifugiati politici, ha trovato rifugio nella politica e non ha alcuna voglia di fare il percorso opposto. Così eccola inventarsi il ruolo di paladina degli ultimi della politica. Una parte peraltro le sarebbe stata richiesta da Nichi Vendola: «Cara Laura, ti ho fatto eleggere a Montecitorio e sei pure diventata presidente dell'aula. Che cosa aspetti a fare qualcosa per Sel?», le avrebbe chiesto il governatore della Puglia.
Detto fatto. La numero uno di Montecitorio qualche giorno fa si è scagliata contro il progetto della nuova legge elettorale griffata Pd+Fi: «Il pluralismo è un segno di democrazia. Quando l'offerta politica si restringe a due o tre partiti la conseguenza è che una bella fetta della popolazione non si identifica più nella politica e preferisce non votare». Un'arringa in difesa delle minoranze a palazzo che si spiega con il terrore dei «sellini» di restar fuori da Montecitorio al prossimo giro in caso di soglie di sbarramento troppo alte.
Ma la decisione, anzi l'indecisione più grave la Boldrini l'ha dovuta prendere nelle ultime ore. Ieri, come raccontiamo in altra parte del giornale, ha atteso l'ultimo momento per fare ricorso alla «ghigliottina» contro l'ostruzionismo grillino che rischiava di far saltare il decreto Bankitalia-Imu, una faccenduola che per gli Italiani aveva il cartellino del prezzo da due miliardi e passa. Ma che volete: la Boldrini proprio non ci stava a passare alla storia come la prima presidente antidemocratica di Montecitorio, proprio lei che è la fatina buona dei palazzi. Così si fino a ieri sera si era rifiutata anche solo di minacciare l'uso della forza, ciò che a suoi predecessori era bastato e avanzato per zittire le opposizioni. Del resto al personaggio si addice la rampogna, il fervorino, la querula punturina; non la voce grossa, che sciupa pure la messa in piega. Così ha atteso i tempi supplementari, scontentando tutti: i grillini comunque costretti a battere in ritirata. E il governo, rimasto con il fiato in sospeso fino all'ultimo.
Laura sogna in grande (la presidenza di Sel? Addirittura il Quirinale?) ma alla Camera sembra proprio non sopportarla nessuno. In molti, compresi tanti che a marzo la votarono per lo scranno più alto di Montecitorio, la descrivono come inadeguata, perennemente incerta, incapace di padroneggiare l'aula o anche solo il regolamento. E pazienza se ad avercela con lei sono gli onorevoli colleghi del M5S, che lei tratta sempre con la sufficienza di una maestrina. A pentirsi di averla piazzata su quel trespolo sono anche quelli del Pd, che pure salutarono il suo avvento come momento epocale. Macché. «È la mediocrità al potere», sussurra un deputato dem. «Ci sono momenti in cui anche i suoi sono disperati», soffia un altro. E come sempre in questi casi anche episodi altrimenti trascurabili vengono portati sul banco dell'accusa.
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