Boom di giovani disoccupati Il nuovo (triste) record di Letta

I l governo Letta-Alfano ha confermato un altro record. Dopo aver portato i trimestri consecutivi di recessione dell'economia a quota 9, dopo aver aumentato le imposte sugli immobili con la legge di Stabilità verso i 25 miliardi di euro, ieri ha «stabilizzato» un altro guinness: il tasso di disoccupazione a ottobre è rimasto al 12,5%, il valore più elevato dall'inizio della rilevazione nel 1977. I giovani, tra 15 e 24 anni che non hanno un lavoro sono il 41,2 per cento. Anche in questo caso si tratta di un nuovo massimo (a settembre era il 40,5%) che pone l'Italia solo dietro Grecia e Spagna dove circa due ragazzi su tre non lavorano. Ciliegina sulla torta la disoccupazione di lunga durata: nel terzo trimestre 2013 il 56,9% di coloro che non hanno un lavoro lo stava cercando da oltre un anno.
L'imperativo di Palazzo Chigi, ovviamente, è minimizzare. I dati «non sono sorprendenti: la stabilità di occupazione e disoccupazione è coerente con il quadro economico», ha chiosato il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, fiducioso nei primi «segnali di risveglio». Ironico il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. «Beato lui», ha commentato giudicando ancora comatoso lo stato del settore produttivo. Eppure, secondo l'ex numero uno dell'Istat, la situazione avrebbe potuto essere peggiore se il governo non avesse ideato il bonus giovani che ha consentito la creazione di 15mila nuovi posti di lavoro.
Giovannini, insomma, ha delimitato le proprie responsabilità. E forse non avrebbe tutti i torti se si usasse un altro punto di vista. La disoccupazione è un dato macroeconomico lagging, cioè indica con un ritardo maggiore o uguale a un trimestre l'evoluzione del quadro economico. Se il Pil cala, l'effetto negativo sulla creazione di posti di lavoro si fa sentire ben oltre il momento nel quale quella misura è stata effettuata. Dunque con il prodotto interno lordo che veleggia verso un -1,9% nel 2013, non c'è da sperare.
Ma proprio dove finisce l'effetto di trascinamento della recessione, iniziano le vere responsabilità del governo Letta-Alfano. In sei mesi non si può creare un boom economico, questo certamente no, ma si poteva almeno provare a invertire la tendenza e questo non è stato fatto. Partiamo proprio dal «famoso» bonus-giovani. La misura, infatti, è stata snobbata perché garantisce uno sconto del 33% su tasse e contributi per chi assume o stabilizza un disoccupato di età inferiore ai 30 anni. Nonostante lo stanziamento fosse di circa 800 milioni complessivi pochi l'hanno usato perché il benefit dura un anno e mezzo ed è meno conveniente rispetto ad altre provvidenze.
La richiesta delle parti sociali è sempre stata abbattere il cuneo fiscale, cioè gli oneri fiscali e contributivi che pesano su buste paga e aziende. La legge di Stabilità versione maxiemendamento ha impegnato 2,7 miliardi nel 2014 che si traducono in un beneficio sostanzioso solo per i redditi bassi fino a 18mila euro lordi annui. Estendere il bonus a una platea più ampia non sarebbe stato sbagliato. Soprattutto considerato che il prelievo medio sulle imprese è arrivato al 68 per cento del reddito prodotto e questo è il primo disincentivo agli investimenti in Italia. Ma da un esecutivo che non ha trovato 500 milioni per evitare la beffa dell'Imu sulla prima casa tutto ciò non si poteva pretendere.
Certo, si potrebbe obiettare che gli interventi di carattere fiscale si possono effettuare con più decisione a fine anno perché la situazione dei conti è generalmente più chiara. Ma il governo Letta-Alfano sul fronte del lavoro si è guardato bene anche dall'introdurre modifiche a costo zero.

Ad esempio, abbattendo tutta la parte della controriforma Fornero che impedisce o rende assai sconvenienti i contratti flessibili e la loro reiterazione. Ma con un azionista di maggioranza come il Pd - che alla parola «flessibilità» reagisce come un toro cui si sventoli un drappo rosso - si è preferito passare oltre. E i risultati si vedono.

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