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"Cambiamo nome", "Non se ne parla". Pd diviso pure sul "Padel"

Nel Pd c'è chi vuole cambiare nome al partito. Orlando e Schlein favorevoli, Bonaccini frena e parla di "discussioni surreali". Pure il rebranding diventa un caso al Nazareno

"Cambiamo nome", "Non se ne parla". Pd diviso pure sul "Padel"

I dem sono tentati dal "Padel". Non male, come acronimo, per un partito che ormai rimbalza da una sconfitta all'altra. Nel tentativo di tornare a vincere sul campo - impresa assai ardua, almeno per ora - i progressisti le stanno provando tutte. Ieri, nell'ultima assemblea officiata da Enrico Letta, hanno ad esempio approvato il loro Manifesto dei valori (nulla di nuovo sotto il sole) e in un'ottica di rinnovamento qualcuno tra loro è tornato ad auspicare un cambio di nome al partito. Via il marchio Pd, ormai logoro e troppo legato alle recenti disavventure politiche: il rinnovamento - ritengono i sostenitori del rebranding - dovrà avere anche un valore simbolico.

La discussione sul nuovo nome

Il primo a paventare un cambio di denominazione era stato il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, che aveva proposto di ribattezzare il Pd come Partito democratico e del Lavoro. Ovvero, Padel. La sigla aveva suscitato facili ironie, soprattutto in rete, ma tra i dem in molti avevano preso sul serio quella ipotesi. Il tema è infatti tornato in auge nell'assemblea nazionale di ieri, nella quale sono state gettate le basi per la successione a Enrico Letta. Il Pd? "Mi piacerebbe chiamarlo Partito del lavoro", ha fatto sapere Andrea Orlando. L'ex ministro ha spiegato a Repubblica che la discussione sull'argomento è aperta. "Io condivido questa opzione perché con essa si risponderebbe almeno in parte al tema dell'identità", ha affermato. Propensa al cambio di nome anche la candidata alla segreteria Elly Schlein.

L'ennesima questione autoreferenziale

Stefano Bonaccini, suo principale competitor, si è invece mostrato più cauto e dubbioso. "Non ho nessun tabù ma non perdiamoci in discussioni surreali", ha osservato. Esplicito il rifiuto di Paola De Micheli: "Non se ne parla". Così, ancora una volta, i dem si sono trovati in disaccordo. E se le loro divisioni sono nuovamente divampate sul nome del partito - fa notare qualcuno - chissà come si comporteranno sui temi politici più consistenti. In effetti, l'aggettivo "surreale" utilizzato da Bonaccini sembra quello più calzante per descrivere l'ennesima questioncina autoreferenziale tutta interna al Nazareno. La base progressista infatti sembra assai poco appassionata al dibattito sul rebranding e, piuttosto, attende risposte concrete su argomenti che riguardano la quotidianità dei cittadini.

Il rischio maquillage

Poi, per carità, è legittimo che un partito discuta anche del proprio nome. Nessuno lo vieta. Il punto è che l'operazione rischia di trasformarsi in un superfluo maquillage di facciata dietro al quale si nasconde in realtà lo stesso approccio ideologico di sempre. Nei giorni scorsi, del resto, c'era già chi auspicava la realizzazione di un nuovo Pd capace di fare da "argine e alternativa alla destra peggiore di sempre". Ma come può un movimento politico maturare davvero se nemmeno riconosce il ruolo e il valore degli avversari?

Il colmo, infine, è rappresentato dal fatto che il tanto discusso cambio di nome potrebbe scontrarsi con le regole dello stesso statuto Pd, nel quale si prevede che non possano essere sottoposti a referendum gli articoli fondativi.

Quelli che, tra le altre cose, indicano il nome e il simbolo del partito.

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