A sette mesi dall’esplodere del caso Almasri. Il governo esce allo scoperto e indica quella che fu la vera ragione della riconsegna alla Libia del generale-torturatore: la «sicurezza nazionale». Fu quello, si legge nella nota inviata da Palazzo Chigi alla Corte penale internazionale, il vero criterio seguito nella gestione della delicata vicenda scaturita dall’arresto a Torino di Almasri, ricercato dalla Corte penale internazionale. In sostanza, il governo sostiene che su tutta la vicenda è stata fatta confusione, la consegna alla Libia non fu un favore fatto al generale ma un provvedimento ostile da parte dell’Italia, che lo considerava una minaccia: «Almasri è stato rimpatriato in Libia non in esecuzione della richiesta di estradizione, né a seguito di una dichiarazione impropria di “inammissibilità” ma in ottemperanza a un provvedimento di espulsione emesso per motivi di ordine pubblico e sicurezza nazionale legati alla pericolosità del soggetto».
È una svolta importante, perché introduce nella vicenda un tema - quello della sicurezza nazionale - che potrebbe venire invocato per coprire alcuni passaggi col segreto di Stato e soprattutto venire utilizzato dalla maggioranza per rifiutare l’incriminazione dei quattro membri del governo indagati dalla Procura di Roma, a partire dalla premier Giorgia Meloni, se il tribunale dei ministri decidesse di chiedere per alcuni o per tutti l’autorizzazione a procedere.
La sorte di questo procedimento (che oltre alla premier vede indagati i ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, oltre al sottosegretario Giovanbattista Fazzolari) è ormai una sorta di giallo, i termini sono scaduti da molti mesi, a metà luglio era stata data per imminente la chiusura delle indagini: poi non se ne è saputo più niente. Invece va avanti l’altro procedimento, quello che vede l’Italia sotto accusa davanti alla Corte dell’Aja per non avere collaborato alla cattura del generale.
Ed è nell’autodifesa italiana davanti alla Cpi che fa capolino ieri il tema della «ragion di Stato». Nelle quindici pagine di memoria difensiva inoltrate nei giorni scorsi alla Corte, si dice che «l'Italia non ha agito in modo incoerente» e ha avuto un «approccio legittimo e in buona fede alla richiesta della Corte penale internazionale».
Il governo ribadisce che a rendere impossibile la consegna del ricercato all’Aja fu «il mancato riconoscimento della validità dell'arresto provvisorio da parte dell'autorità giudiziaria» e che a quel punto l’espulsione (avvenuta su un volo dei nostri servizi segreti) «era l'unica soluzione praticabile dal punto di vista legale e pratico».