Qatargate

"Forte pressione sui dossier marocchini". La rivelazione dietro al "sistema Panzeri"

Alcune rivelazioni dell'ex eurodeputato Niccolò Rinaldi confermerebbero il sistema di pressioni esercitato dal Marocco su eurodeputati e assistenti: "La rete del sostegno marocchina era molto estesa"

"Forte pressione sui dossier marocchini". La rivelazione dietro al "sistema Panzeri"

Il caso Qatargate è una matassa complicata colma di intrecci, incontri, pressioni e presunte corruzioni. A far scalpore, ovviamente, sono il milione e mezzo di euro trovato dagli inquirenti, i trolley pieni di soldi o le contraddizioni della Ong di Antonio Panzeri, che non solo non combatteva l’impunità ma la favoriva pure. Tutto questo è rilevante (soprattutto se confermato dai magistrati di Bruxelles) ma è solo la punta dell’iceberg di un disegno più ampio.

La "lista dei cattivi"

L’intervista al Corriere della Sera di Niccolò Rinaldi, ex eurodeputato, va verso questa direzione. Ad “attaccare la democrazia europea” – e qui ci riserviamo di aspettare la ratifica degli inquirenti - sarebbero i fatti politici: i voti a favore del Qatar, le pressioni interne alle commissioni da parte del Marocco, le parole al miele spese dalla ex vicepresidente del Parlamento europeo sul Paese del Golfo e così via.

Rinaldi, funzionario del parlamento europeo dal 1991 ed ex eurodeputato con Italia dei valori accetta di ricostruire lo scandalo Qatargate attraverso la sua esperienza. “Di aneddoti – esordisce Rinaldi – di frasi rivelatrici, sospetti, adesso me ne vengono in mente parecchi”. Anche il suo nome figura nei cosiddetti “Maroc-leaks”, una serie di documenti riservati sulle manovre di lobbying del Marocco, pubblicati da un hacker marocchino dal nome anglosassone, Chris Coleman. Le stesse carte che hanno portato alla luce una nota del 2013 dove Antonio Panzeri veniva definito un amico intimo del Marocco”.

Niccolò Rinaldi, al contrario di Panzeri, fa parte della “lista dei cattivi” e dall’ambasciata marocchina viene schedato e foto segnalato. Il motivo lo rivela lui stesso nell’intervista.“Era il 2013 e il Marocco aveva impedito a una delegazione di deputati europei di recarsi nel Sahara Occidentale”, regione, tra l’altro, rivendicata storicamente da Rabat. Il comportamento del Marocco fu “molto grave” e l’ex eurodeputato, convinto di una necessaria risposta del Parlamento europeo, provò a “mobilitare” la sua delegazione.

La reazione del suo gruppo, i liberali e democratici (Alde), dice tutto del clima di pressioni che si respirava negli uffici di Strasburgo: “La reazione fu molto modesta, di facciata: la rete del sostegno marocchino era molto estesa”. E aggiunge, “Continuai a rifiutarmi di incontrare i rappresentanti delle lobby, ma ormai era chiaro che queste operavano da dentro, anche attraverso deputati, così che lobbisti e destinatari dell’azione di lobby coincidevano”.

Le pressioni sui dossier marocchini

La ricostruzione di Rinaldi, se attinente alla realtà dei fatti, è inquietante. E, incalzato dalle domande del giornalista, l’ex eurodeputato arriva al nocciolo della questione: le pressioni di Rabat sui dossier marocchini. Secondo il suo punto di vista, “c’era una forte pressione sui dossier marocchini, con un’ambasciata molto attiva a Bruxelles, un gruppo di amicizia informale e una grande agenzia di lobby che lavorava per il Marocco, la G-Europe”. Rinaldi arriva a parlare di veri e propri “friendship groups”: gruppi informali creati da ambasciate o da Ong che, a detta sua, avevano il compito di condizionare le scelte degli eurodepuatati sui dossier.

Rinaldi ne è certo: “Nel complesso si creava una zona grigia di ambiguità tra l’espressione di legittime posizioni e comportamenti poco chiari”. E i soldi ovviamente avrebbero contributo ad indirizzare i voti: “I soldi sono terribili, la gente perde la testa e passo passo finisce che si abbassano gli anticorpi etici”.

L’ex eurodeputato dell’Idv ricostruisce il sistema di presunte pressioni esercitato dal Marocco su eurodeputati e assistenti ma, prima di fare nomi e cognomi, si riserva di aspettare le conclusioni dell’indagine guidata dal giudice istruttore Michel Claise.

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