Cercò Yara senza tregua muore nell’anniversario nero

Cercò Yara senza tregua muore nell’anniversario nero

È perfettamente inutile che noi umani cerchiamo di trovare un senso a certe coincidenze. Possiamo solo prenderle così come si presentano, lasciando agli adoratori dell’occulto le più recondite connessioni. L’altra sera, 26 febbraio, anniversario del ritrovamento di Yara, se n’è andato anche l’uomo che forse più di tutti, al di fuori della cerchia familiare, si era dannato per ritrovarla. Giovanni Valsecchi, 68 anni, quattro figlie e due baffoni indimenticabili, ha chiuso gli occhi sulle sofferenze della malattia carogna, ma anche sull’ossessione che non gli dava più pace.
Se il nome non dice niente, certamente tutti ricorderanno quel signore d’altri tempi e d’altra tempra che nei giorni allucinanti delle ricerche compariva davanti ai microfoni per garantire tutto l’impegno, tutta la passione, tutta la rabbia dei suoi uomini. Valsecchi era il responsabile della sezione Alpini di Brembate, dunque in quel periodo tremendo era a capo della Protezione civile locale, perché come in Italia tutti sanno il cuore grande delle penne nere non si esaurisce in etiliche adunate nostalgiche, ma si attiva ogni volta come ai tempi della leva, non appena la propria terra e il proprio popolo chiedono aiuto.
Per tre mesi, Valsecchi e i suoi volontari avevano battuto il circondario, nel gelo e nelle nebbie dell’inverno, affiancando i militari e i professionisti della pubblica sicurezza, mettendoci certo minore competenza specifica, ma generosità e partecipazione commoventi. Valsecchi non si stancava mai ripeterlo, per rincuorare la famiglia Gambirasio e per incoraggiare i suoi: «Noi non smetteremo di cercare fino a quando Yara non sarà a casa».
Tante fatiche, tanta speranza, tanti sacrifici non erano serviti a niente. Erano serviti a dimostrare quanta disponibilità vi fosse in quelle persone - pensionati, padri di famiglia, giovani pronti a sacrificare tutti i minuti del tempo libero -, avevano riempito diversi servizi giornalistici di taglio civile e pure sentimentale, avevano soprattutto permesso alla mamma e al papà della piccola di sentirsi meno soli, ma quanto alla missione suprema, riportare a casa Yara, tutto vano. Yara l’aveva ritrovata senza volerlo, in uno slargo incolto tra i capannoni di Chignolo, un appassionato dei modellini aerei. Quel giorno, il 26 febbraio, Valsecchi aveva pianto due volte: la prima per la parola fine caduta in modo così terribile sui sogni dell’amata ragazzina, la seconda per l’avvilimento di una scoperta così casuale, così estranea, vissuta come una sconfitta.
Erano seguiti anche giorni piuttosto brutti e dolorosi, segnati da una strisciante venatura di sgradevoli livori. Feriti nell’orgoglio, i volontari della Protezione avevano cercato di difendere il proprio impegno, sostenendo che il cadavere di Yara era finito in quel campo soltanto negli ultimi giorni, certissamente sì, perché lì erano passati varie volte, e mai e poi mai sarebbe sfuggito ai loro occhi attenti. Un’autodifesa comprensibile, anche se effettivamente un po’ sopra le righe e fuori posto, perché nessuno mai si sognerebbe di chiedere ai volontari precisione ed efficienza da corpi speciali. Non sono i Ris e neppure le Teste di cuoio, non lo sono e non devono esserlo: soltanto qualche stupido inviato dal microfono maligno aveva rimestato nel torbido, mettendoli sul banco degli imputati, addirittura insinuando che magari, forse, chissà, qualche volontario era coinvolto nel delitto, tanto da sviare le ricerche...
Valsecchi si era esposto molto per difendere i suoi. Valsecchi era finito anche al centro delle cattiverie strapaesane. Gli avevano persino consigliato-imposto di non vestire al funerale la sua amata divisa. «Dopo tutto quello che abbiamo fatto - s’era poi sfogato - ci incolpano pure. Un tizio mi ha detto che devo imparare a cercare la gente, prima di indossare la giacca della Protezione civile».
Ne aveva fatto una malattia, di questo delitto, dicevano in paese. Era un uomo distrutto. Aveva spento il cellulare per giorni e giorni. Sui giornali locali si era così confessato: «Di notte mi sveglio sempre di soprassalto. Prima del ritrovamento, vedevo Yara in una pozzanghera che si dannava per tirarsi fuori. Adesso sogno di trovare gli assassini». Era andato persino a Fatima, con il parroco, per chiedere aiuto nell’inchiesta.
Non si era più ripreso, questa la verità. Sì, ne aveva fatta una malattia. Dentro, nell’anima.

Nessuno può dire se questa subdola malattia abbia poi invaso anche il suo organismo, portandolo alla fine. Morire a un anno esatto dal ritrovamento di Yara resta solo un segno, ma un segno forte per sempre: il segno di due vite legate dal destino, trascinate nello stesso incubo, senza conoscere un perché.

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