di Domizia Carafòli
Questa mattina sono andata al mare nella cittadina adriatica che frequento da anni. O meglio: ho cercato di andare al mare. Dopo un lungo, inutile giro per trovare posteggio, mi sono rassegnata: per oggi niente mare a meno di portarmi l'automobile sotto l'ombrellone, il che è vietato. Prima di ripartire, ho cercato di comprare i quotidiani, ma erano quasi tutti esauriti. Ho fatto capolino dal fornaio per la pizza (macchina in terza fila), ma visto che avevo una ventina di persone davanti, ho rinunciato.
Così, dopo una maleodorante attesa per imboccare la rotatoria, riempiendomi i polmoni di diesel e benzene, ho rivolto la prua verso casa, lasciandomi alle spalle la festosa atmosfera vacanziera, i manifesti che annunciavano feste, serate hawaiane e sagre del coniglio in porchetta.
Canticchiando «Azzurro è il pomeriggio» anche se era mattina, ho pensato che in questi giorni, il treno da prendere dovrebbe andare in direzione opposta di quanto dice la canzone di Paolo Conte, cioè verso la città. Via dalla folla che concentra quanto le resta delle risorse economiche in pochi giorni e in luoghi di vacanza che, nonostante la crisi (o forse proprio per questa), collassano sotto l'assalto.
Essendo da un pezzo finita l'epoca delle vacanze lunghe, il riversarsi di una massa verso il luogo di vacanza in un breve tempo, non fa che trasferire i peggiori difetti del vivere in città: folla, code, traffico, rumore. Mentre nello stesso periodo, la città, liberatasi di una parte di abitanti, si rivela tranquilla, silenziosa, pulita, accessibile.
A Milano, poi, la sospensione dell' «area C» ti consente di rimetterti al volante (dopo un inverno tranviario) senza far traballare le coronarie, di passare attraverso piazze e piazzette, scoprendo quanto sono belle. La sosta al semaforo permette di alzare lo sguardo verso i monumenti, senza l'assillo dell'automobilista dietro che strombazza imbufalito per un nano secondo di esitazione alla partenza.
Un momento: è bella la città estiva di oggi, più libera ma comunque viva, comunque abitata. Nemmeno quindici fa, se dovevi confessare che in agosto restavi, lo facevi con la vergogna di chi sa di essere un poveretto, un abbandonato/a da Dio e dagli uomini, dalla compagna o dal compagno, costretto/a a infruttuose ricerche per mezzo litro di latte o per una tintoria pietosa che ti lavasse le camicie. Nelle strade deserte, fra le allucinate file di saracinesche abbassate, si levava il lugubre suono degli allarmi: i ladri erano i tuoi soli compagni dell'agosto cittadino.
Non è soltanto la crisi a trattenere più persone in città. Sono cambiati gli stili di vita. È finito il mito vacanziero comune, tutti insieme, stessa spiaggia stesso mare negli stessi giorni, lunghe teorie di infradito che ciabattano sul lungomare nell'olezzo del pesce fritto. Chi non ha figli o ha figli in età pre-scolare differisce le partenze in settembre: prezzi migliori e aria più fresca. Chi deve rispettare i tempi scolastici va in vacanza a ritmo alterno: prima parte la moglie con i bambini, poi lei torna e parte lui. I pargoli godono di vacanze più lunghe e i coniugi di una salutare interruzione di rapporti, una sorta di boccata d'aria psicologica, non necessariamente condita da evasioni sentimentali. Ma un interrompersi della routine, il piacere di telefonarsi la sera, la gioia di abbandonarsi a un po' di santo disordine: la tazzina del caffè non lavata, la radio a tutto volume.
Santa pace della città d'estate, le albe tranquille dove scopri che sopra il tetto, guarda un po', vola ancora qualche rondine.
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