Che male c'è se il made in Italy ha fame di ingredienti stranieri?

Dalla bresaola "brasiliana" allo speck con carni del Centro Europa: l'import non è un'onta per le nostre aziende, ma una necessità. E assicura posti di lavoro

Che male c'è se il made in Italy ha fame di ingredienti stranieri?

Ho letto con attenzione l'inchiesta di Andrea Cuomo di domenica 25 agosto sul made in Italy prodotto con materie prime straniere. Vorrei fornire qualche dato e qualche riflessione dal punto di vista dell'industria alimentare. Mi pare che l'articolo tenga in scarsa considerazione il fatto che l'Italia è - anche nell'alimentare - un grande Paese trasformatore che, a parte in qualche settore, è strutturalmente in deficit di materie prime. Una situazione oggettiva, storica, che l'industria alimentare - a differenza della moda o del design - non ha saputo comunicare lasciando spazio al «populismo» di Coldiretti, che non perde occasione per amplificare i presunti rischi dell'importazione di cibo, ma diventa afona tutte le volte che c'è un problema in Italia: dalle aflatossine nel mais nel 2012, alle migliaia di polli abbattuti quest'anno in Italia - e solo in Italia - per l'aviaria, per fare i più impattanti esempi degli ultimi due anni.

Vorrei essere chiara: se l'origine di un prodotto coincidesse con quello della materia prima, verrebbero privati del carattere di italianità moltissimi dei prodotti che sono un simbolo nazionale e che l'industria di trasformazione ha saputo realizzare a volte a prescindere dalla materia prima italiana, che in casi non marginali è assente (ad esempio caffè, cacao, ecc.) o carente quantitativamente o qualitativamente (come il grano duro per la pasta, la soia, la carne suina e bovina, il latte, ecc.). Sarebbe come dire che la Ferrari non è italiana perché per la scocca utilizza componenti in alluminio prodotti in mezzo mondo e assemblati a Modena. O che la moda italiana non esiste perché cotone, lana e seta vengono quasi completamente dall'estero.

In questo contesto voglio sottolineare il termine «qualitativamente»: molto spesso ci diciamo che le materie prime italiane sono le migliori. Spesso è vero, ma non è sempre vero. Per limitarmi a uno degli esempi dell'articolo in questione, ricordo come la bresaola viene prodotta da più di cinquant'anni con carne bovina brasiliana (e non suina, come si segnala nell'infografica dell'articolo) non per risparmiare: costa infatti in genere di più di quella italiana. Lo facciamo perché la carne italiana, da quando gli allevatori non portano più le mucche al pascolo, non è adatta per produrre la bresaola. Servono bovini che hanno vissuto all'aperto, mangiando erba, come quelli sudamericani, e non nelle stalle a nutrirsi di mais come quelli italiani (poiché oggi sono dedicati alla produzione di latte e quindi dei grandi formaggi italiani). Allo stesso modo, da sempre le cosce del Centro Europa arrivano in Alto Adige per essere trasformate in Speck secondo la ricetta di questa provincia «meridionale» dell'Impero Austro Ungarico, ricetta che prevede stagionatura e affumicatura.

Questo non vuol dire che gli imprenditori sono contrari a una corretta informazione nei confronti del consumatore. Anzi, quando questo ha un senso, già oggi i nostri prodotti riportano l'indicazione d'origine della materia prima (che appunto è un concetto diverso da quello dell'origine del prodotto che deriva dall'ultima trasformazione sostanziale). Italiana o meno che sia.

L'immagine del «prodotto italiano» è legata alla cultura della produzione di qualità, che non corrisponde all'utilizzo esclusivo di materie prime italiane ma alla capacità di selezionare le migliori materie prime, a prescindere dall'origine.

Peraltro - nonostante Coldiretti si dimentichi di segnalarlo - la stessa agricoltura utilizza moltissime materie prime provenienti dall'estero: dalle sementi (e dal materiale vegetale da riproduzione) per frutta e verdura, di cui si sono importate l'anno scorso l'incredibile cifra di oltre 1 milione 200 mila tonnellate - dieci volte il peso totale dei salumi esportati - ai cereali per mangimi, il cui grado di autoapprovvigionamento non supera il 50% (e arriva al 10% per la soia). Ma nessuno si sogna di mettere in dubbio l'italianità dei prodotti che utilizzano queste materie prime. Nessuno pensa che un pomodoro coltivato in Italia non sia italiano se il seme - o addirittura la piantina - da cui nasce è frutto della ricerca e della selezione genetica olandese o statunitense e viene importato dalla Germania o da Israele. Nessuno pensa che un suino che deriva dalla genetica del nord Europa e viene nutrito con soia argentina non possa essere la base delle nostre grandi DOP.

Ma per l'industria alimentare questo non vale: siamo trattati nella migliore delle ipotesi come opachi faccendieri, nella peggiore come truffatori. E adesso vorrebbero impedirci di usare il tricolore, come se le nostre aziende che sono state tramandate di padre in figlio e continuano a portare ricchezza sul territorio fossero imprese italiane di serie B.

Sembra quasi che nel nostro Paese lo sport nazionale sia quello di screditare l'immagine di chi produce da decine o centinaia di anni in Italia, garantendo occupazione e sviluppo, spingendolo a chiudere le imprese e far crescere i dati già drammatici dei senza lavoro.

Lisa Ferrarini, presidente Assica

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