Se qualcuno oggi dovesse spiegarvi cosa c'è dietro la brutta storia del rapimento del ragionier Giuseppe Spinelli, non credetegli. Perché talmente numerosi sono i dettagli incongruenti, e talmente vistoso il vuoto lasciato dai tasselli mancanti, che nessuno può in buona fede (a parte gli opinionisti da osteria e da Facebook) pensare oggi di spiegare cosa sia davvero accaduto. C'è però una certezza da cui si può partire: l'operazione non è frutto della fantasia criminale di un sestetto di gregari della malavita come quello finito finora nella rete. Non è il caso, forse, di parlare di «menti raffinatissime». Ma un livello superiore, una mano più oculata, ha guidato le mosse dei sei.
Il movente economico, e questa è un'altra certezza, non spiega tutto. Va bene che Silvio Berlusconi - come il povero ragionier Spinelli sa bene - è un uomo generoso. Ma pensare che trentacinque milioni potessero uscire dalle casse (oggi peraltro monitoratissime) del Cavaliere in cambio di un miscuglio di verità più o meno strabilianti, e processualmente comunque inutilizzabili, è fare torto all'intelligenza. Magari chi ha architettato il rapimento e l'estorsione qualche soldo in tasca se lo sarebbe messo volentieri. Ma l'obiettivo di questa trama - solo in apparenza maldestra - era sicuramente anche altro e più alto.
I temi agitati da questi rapitori dal buon cuore, che rimboccano le coperte ai loro ostaggi, sono - si badi - temi seri: le scelte di campo di Gianfranco Fini, i suoi rapporti veri o presunti con la magistratura, sono un tema di cui si discute da tempo; e la sentenza del Lodo Mondadori costituisce indubbiamente, nelle sue colossali dimensioni, un unicum nella storia giudiziaria del Paese. Che sulla loro genesi si possano ipotizzare versioni innovative fa parte del lecito. Ma che queste verità alternative possano essere custodite da questi magliari di provincia, imboscate in una chiavetta che sul più bello ovviamente non funziona, non è credibile.
Braghieri e Silvestri da pagina 2 a pagina 5
di Luca Fazzo
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