Grumo? Se siete in Cina non cercate questa parola su Google. In cinese si traduce in «Tuo», termine che, secondo il regime di Pechino, assomiglia pericolosamente al nome del capo della censura della provincia di Guangdong, da giorni bersaglio di un'inedita protesta dei giornalisti cinesi. Chiedono più libertà di stampa, dopo che il burocrate contestato ha imposto a un giornale locale, il Southern Weekend, di sostituire un editoriale che chiedeva riforme con uno che incensa la nuova dirigenza comunista.
La protesta ha riacceso l'attenzione sull'implacabile bavaglio elettronico imposto da Pechino alla Rete. Ed è saltato fuori che Google, senza clamore, ha calato le brache virtuali di fronte al regime. Dopo anni di braccio di ferro ha ceduto sull'ultimo brandello di resistenza alla censura: ha eliminato il messaggio automatico che metteva sull'avviso chi digitava una parola a rischio bavaglio. Scrivi «Tienanmen»? La cosiddetta «Grande Muraglia» del web (Great firewall), un sistema di censura elettronica senza pari al mondo ti bloccherà la finestra di ricerca.
Ma non solo: il Washington Post ha scovato una serie di parole che fanno scattare la museruola. Ovviamente «Tibet» e «Dalai» (come il Lama), «Taiwan» e, manco a parlarne, «democrazia». È impossibile accedere al 90% dei siti che parlano di Tien An Men, al 31% di quelli sul Tibet e all'82% delle critiche all'ex presidente Jang Zemin. Ci sono poi i termini oscurati in ossequio alla morale ufficiale del partito: inutile cercare «porno» (che in Occidente è da sempre uno dei termini più cliccati). La lotta alla pornografia oltretutto è una delle scuse addotte da Pechino per «spegnere» Google, come accadde nel 2009 per qualche settimana. Ma non è l'unico episodio: ci sono stati vari periodo di blackout all'inizio degli anni 2000, Google ha poi implementato la censura sulla versione cinese Google.cn (la versione americana Google.com funziona male e a rilento). E gli ostacoli frapposti dal governo cinese hanno permesso al concorrente locale, Baidu.com, di accaparrarsi il 74% del mercato.
A questo punto Google doveva scegliere: diventare marginale in Cina o provare a sottomettersi. Facile ora condannare il motore di ricerca, ma anche ingiusto: si può delegare a un'azienda una lotta per la libertà in Cina che anche i governi occidentali rinunciano a condurre in ossequio al business? Google però avrebbe almeno potuto risparmiarci la retorica, con il noto motto aziendale «non essere malvagi» e la firma di un protocollo con gli altri colossi del web, Yahoo e Msn, con cui si impegnavano a garantire la libertà d'accesso alle informazioni, per poi arrendersi e non con un annuncio formale, che avrebbe almeno denunciato le pressioni subite, ma con una semplice ritirata. Che starebbe già giovando al business, visto che gli esperti hanno subito rivisto al rialzo le stime dei ricavi di Qihoo, l'azienda cinese che opera in partnership con Google.
In ogni caso la notizia cancella gli ultimi dubbi sulla possibilità che la nuova dirigenza comunista intenda allentare la presa sulla censura. Il sistema è spietato e ha un'efficienza invidiabile. In parte il governo demanda ai provider, cioè a chi fornisce l'accesso al web agli utenti, una prima «selezione» delle ricerche ammesse, c'è poi il software che fa da guardiano automatico. Ma i mandarini del web hanno ben presto realizzato che serviva anche un intervento umano: una specie di «polizia» della rete che schiera migliaia di controllori, il cui compito principale è passare al setaccio i commenti su Weibo (il Twitter cinese). Perché anche gli anti regime si sono fatti furbi e, ad esempio, commentano con citazioni di Solzhenitsin («una parola di verità è più pesante di tutto il resto del mondo») o metafore: il corteo a Hong Kong diventa «il tifone in arrivo». Ma è difficile gabbare i controllori: i commenti sgraditi in media spariscono entro 24 ore. Ed evidentemente nulla è lasciato al caso: una società di consulenza, Crimson Hexagon, ha scoperto che monitorando le parole censurate si possono anticipare le linee guida del governo.
Roba da far impallidire il Grande Fratello. Chissà se ora qualche nemico della globalizzazione gioirà nello scoprire che ci sono governi più forti delle multinazionali.
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