
Oggi e domani la grande maggioranza degli italiani assisterà impotente al perpetrarsi di un doppio danno: alla democrazia e all'erario. Il danno alla democrazia è palese. Non c'è nulla quanto mettere in moto a vuoto una gigantesca e delicatissima macchina per far perdere credibilità a un sistema che ha eretto il referendum abrogativo a garanzia della sovranità popolare. I quesiti oggetto di plebiscito, si sapeva da principio, da quando erano nella mente degli sciagurati proponenti (in primis la Cgil) non riscuoteranno il quorum del cinquanta per cento necessario a rendere valido il voto. Ne erano ben consapevoli i soggetti che hanno raccolto le firme, le quali potendosi raccattare via internet, non necessitano più degli forzi impavidi di migliaia di militanti per agguantare la cifra di mezzo milione di sostenitori. Ciò che non costa niente, vale ancor meno. Da anni si constata il fenomeno. Eppure c'è sempre una minoranza che fa due calcoli, e ci prova lo stesso. Per i suoi capi, infatti, comunque vada è un successo. Consente loro di propagandare gratis le loro tesi (tivù e giornali lo debbono fare senza ricavarne un soldo) e, soprattutto le loro facce.
Una volta si pensava che a essere in crisi fosse la democrazia rappresentativa, vale a dire il concetto di delega implicito nelle elezioni per il parlamento e per le varie assemblee comunale e regionali. E che la democrazia diretta rappresentata appunto dal referendum che avrebbe sbugiardato l'inerzia delle Camere su temi decisivi e divisivi come tutte le cose importanti -, vi avrebbe posto rimedio. La cura si sta dimostrando mortale, e si fa di tutto per svilire la frustata popolare al Palazzo di Lorsignori che qualche decennio fa i referendum rappresentarono.
I risultati di oggi e di domani non saranno la vittoria della pigrizia, ma della stupidità di chi abusa di strumenti eccellenti se la causa ne è degna.
Ho detto dei costi per l'erario. La cifra è soggetta a differenti valutazioni. Se si tiene conto delle spese indirette ma reali si arriva, lo ha detto informalmente Giorgia Meloni, a 400 milioni di euro. Essa è in linea, e applicando un'inflazione minima, con quella che fu l'ultima risposta ufficiale a una interrogazione parlamentare, stabilendola in quasi 365 milioni. Un sito petulante ha risposto che sono meno di 100 milioni (circa 88), sommando solo i costi vivi di carta, matite, lettere di convocazione, manifesti, paga per presidenti e scrutatori ai seggi. Una balla ciclopica, davanti al valore del tempo buttato via (il tempo è l'unica fonte di energia che si esaurisce e non ha fonti rinnovabili) e del declassamento della democrazia, la svalutazione della sua attrattiva, ridotta a cortigiana da infimo bordello ad uso dei sindacati.
Analizziamo i contenuti dei cinque quesiti. I quattro sul lavoro sono archeologia. Sono tesi infatti a riportarci a rapporti tra imprenditore e dipendente di tipo matrimoniale, senza neppure la possibilità di divorziare. Si sostiene da parte di Maurizio Landini, e della Elly Schlein, che incrementerebbero il diritto dei lavoratori. Sì, ma alla disoccupazione. Li smentisce l'incremento del numero di occupati che si è registrato e al decremento del precariato vigenti quelle leggi peraltro volute da Renzi con il Jobs act e proprio in questi due anni e mezzo di governo del centrodestra che ha saputo farle funzionare.
Io ritengo che un modo ci sarebbe per rimettere in gioco la facoltà di scelta della gente comune. Aiuterebbe a ridare smalto alla democrazia e credibilità alla sovranità popolare. Sottoporre cioè a valutazione diretta di ciascuno qualcosa che riguarda la coscienza e la giustizia in questo nostro Paese.
1- La 194 del 1978, la legge che introduce l'aborto pagato dallo Stato in Italia, ma il cui titolo ipocritamente dice: Norme sulla tutela sociale della maternità. Da allora, grazie agli anticoncezionali, e temo anche a una minor pratica degli attrezzi necessari per la generazione di bambini, il numero di quegli infanticidi è calato. Ma centomila creature spezzettate dal tronchesino o sciolte dall'acido vi paiono poche? Nel 1981, il 17 maggio, il 68 per cento dei cittadini votò no alla sua abrogazione. Sono passati 44 anni. Due generazioni non hanno avuto la possibilità di esprimersi. E forse tanti, che allora si espressero, hanno avuto la possibilità di ricredersi sulla liceità di quella pratica crudele. Ecco, ri-esprimiamoci.
2- Ancora. Nel novembre 1987 un referendum introdusse la responsabilità civile dei magistrati. Una legge del 1988 le tolse il pungiglione.
Risultato: se un chirurgo ti porta via il rene sbagliato, paga i danni; se un magistrato manda in galera un innocente si salva sempre, e al massimo paga lo stato. Nel 2022 la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile un quesito referendario per ambiguità del linguaggio (insomma: un quesito suicida). Qualcuno lo riscriva, la democrazia rimetterebbe le ali.