Condanna già scritta senza l'ombra di prove

Una grande tristezza. E la precisa coscienza di una sconfitta del diritto

Una grande tristezza. E la precisa coscienza di una sconfitta. Una sconfitta del diritto, ucciso da una casta che ha sostituito l'esame e il giudizio dei fatti con la battaglia politica e morale contro il male. Marcello Dell'Utri è stato spavaldo. In nome della sua innocenza (rispetto ai fatti) ha sfidato i giudici. E si è condannato quando ha dichiarato: «Vittorio Mangano è il mio eroe». Con quella frase un presunto innocente si è trasformato in presunto colpevole. Sono molto dispiaciuto per quello che tocca e toccherà, in una vecchiaia senza conforti e senza rimorsi, a Dell'Utri. Da vent'anni egli attende una sentenza che gli è data prima che il tribunale si pronunci, arrestandolo, appunto, non da presunto innocente, ma da presunto colpevole. E io sono vent'anni che mi chiedo, ostinatamente: dov'è il reato? Qual è il reato? Qual è il fatto? Penso, con Giovanni Battista Vico, certamente frequentato da Dell'Utri: «Verum ipsum factum». E a tutti quelli che, proprio nella «incertezza», sono certi della colpevolezza di Dell'Utri, chiedo: che cosa ha fatto? Quale trama, quale affare, quale favore ha fatto alla e con la mafia? E con chi? Eppure già una volta la Cassazione, supremo organo del diritto, non ha accolto le inconsistenti prove e ha rinviato alla Corte d'appello, con inoppugnabili argomenti, la sentenza di secondo grado insufficientemente motivata. Fu un luminare del diritto, procuratore generale della Cassazione, fino ad allora impeccabile, e poi deprecato e vilipeso, Francesco Iacoviello, che osò confutare il reato di concorso esterno. Un illuminista? Un giurista? No. Secondo molti, un pericoloso negazionista. Come negare l'evidenza? Ma quale evidenza? Sette anni di carcere per che cosa? Pochi per un mafioso di rango, come non poteva non essere Dell'Utri, esponente di una cupola imprenditoriale e politica; troppi per l'assoluta inesistenza dell'habeas corpus. Chiedo, continuo a chiedere: che cosa ha fatto con la mafia Dell'Utri? Qualcuno mi risponde: ha assunto nel 1974 Vittorio Mangano come «stalliere» di Arcore. Appunto, nel 1974 Mangano era incensurato e non risultano reati compiuti da lui in concorso con Dell'Utri. Con quali altri allora?

I giudici inseguono da vent'anni Dell'Utri. Ma senza prove, senza fatti. La risposta ci viene da Francesco Merlo, amico del giudice e ministro Filippo Mancuso (che certamente avrebbe assolto Dell'Utri). E le sue parole sono la miglior difesa e insieme la sicura condanna per Dell'Utri. Egli ci spiega «il codice della mezza mafia». Per questo discorso, in concorso con Michele Serra, Merlo demonizza, come solo in Italia può avvenire, un ristorante. Nella prima Repubblica, furono I Due ladroni e l'Agustea, tempio gastronomico dei socialisti (inevitabile: avevano la sede del partito sopra il ristorante); nella seconda Repubblica sono Fortunato e Assunta Madre («dove tutti sembrano comparse del film “Terapia e pallottole”»), luoghi evitati dai «buoni», come Serra, che scrive: «il puzzo del potere sovrasta, in quelle sale quello delle fritture più grevi». Ma la sentenza che sarà scritta è anticipata da Merlo: «La mezza mafia, nel codice penale, si chiama concorso esterno. Prima che un reato è un'antropologia fatta di mafiosità (che è diversa dalla mafia) e di narcisismo». Qui conta poco la certezza della colpa, la definizione del reato, perché nell'assunto del pubblico ministero Merlo «l'antropologia da mezza mafia è la stessa di Cuffaro. Ed è quella di Mannino... che è stato assolto perché l'antropologia non esclude l'innocenza penale». E qui è il nodo. Perché Dell'Utri è più vittima che carnefice, e ciò che si è detto di lui è più grande e più grave di quello che (non) ha fatto. È «antropologicamente» mafioso. Parola di Serra. Parola di Merlo. Parola di Travaglio. Parole, non fatti.

In questa tragedia umana e condanna politica e morale, il «concorso esterno» di Dell'Utri coinvolge, naturalmente, Berlusconi e Forza Italia. In una sola, condivisa responsabilità. È evidente che ha manovrato più potere siciliano Raffaele Lombardo di Dell'Utri. E anche Lombardo è stato condannato a 6 anni. Anche in questo caso antropologia? Resta il fatto (e lo ha rimarcato il governatore Crocetta, amico dei giudici e simbolo dell'antimafia) che, in concorso con Lombardo, hanno governato due valorosi magistrati, Massimo Russo e Caterina Chinnici. Perché nessuno chiede loro conto di essere stati a fianco di un «mafioso»? Quando loro erano con lui Lombardo era già indagato, mentre non lo era Mangano quando Dell'Utri lo assunse. I due magistrati hanno garantito per Lombardo. E come mai ora, il Pd, che ha escluso indica come capolista alle Europee la Chinnici? È certamente una questione antropologica. Ma il Libano è vicino, e forse scopriremo che, dal punto di vista antropologico e giuridico di quel Paese, non sarà possibile estradare un uomo per un reato che non esiste.

Ci daranno una lezione di diritto, quella che Iacoviello aveva anticipato. E, non essendo prescrivibili i reati di mafia, e neanche di «mezza mafia», Dell'Utri morirà innocente, in Libano. Colpevole in Italia. Antropologicamente.
press@vittoriosgarbi.it

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