Il confronto

Due poli conservatori e un partito di destra moderno, che ha superato gli steccati e le barriere ideologiche. E guarda avanti. Si tratta - ovviamente - del Fli. Questa è l’analisi del sistema politico italiano che Gianfranco Fini ha illustrato dal palco del teatro Adriano di Roma, domenica scorsa, alla prima assemblea dei circoli di Futuro e Libertà.
Per quanto riguarda la sinistra, il punto di vista finiano - anche se non argomentato - è condivisibile. All’indomani dell’Ottantanove, cioè del crollo delle ideologie e dell’archiviazione del sistema della Guerra fredda, la sinistra italiana - da sempre fortemente ideologizzata - non sapeva proprio a che santo votarsi, in termini teorici e dottrinari. È nato in questa circostanza, l’arroccamento sui valori fondativi della Repubblica, quelli del tornante 1943-48. La sinistra - alla ricerca di miti fondativi, padri nobili da riscoprire, principi dottrinari ai quali ancorarsi - ha investito tutto in quel grande compromesso tra gli ideali socialcomunisti e quelli cristiano-sociali (orientamenti che oggi, messi insieme, non raggiungono il dieci per cento dell’elettorato) quale fu la Costituzione repubblicana.
Nella cultura politica della sinistra postcomunista è infatti radicato una sorta di mito del giuramento nella Sala della Pallacorda (quando i deputati del Terzo Stato, all’inizio dell’estate del 1789, nella consapevolezza di essere i depositari esclusivi del potere costituente, giurarono di non separarsi mai sino a che non avrebbero ottenuto una Costituzione). Tale è la ragione della conservazione, del «giù le mani dalla Costituzione». Soprattutto dalla prima parte, quella dei principi fondamentali. Principi che, tuttavia, spiegano le ragioni del vivere associato di una comunità politica che è molto cambiata.
Nel 1948, oltre il quaranta per cento della popolazione attiva del Nord e il sessanta al Sud lavorava ancora in campagna; nell’Italia centrale i contadini erano in prevalenza mezzadri, mentre nel Meridione era diffuso il latifondo. L’epicentro del sistema industriale era confinato nel triangolo tra Torino, Genova e Milano. E al di fuori gli insediamenti produttivi erano quasi inesistenti. Nessuno dei partiti che concorsero alle elezioni del 2 giugno 1946 è oggi presente in Parlamento. E se volgiamo gli occhi sulla società ci rendiamo conto che di ben altra natura sono i conflitti, pur profondi, che la percorrono.
Neppure un orbo - sul versante opposto - potrebbe definire conservatore un governo, espressione dell’altro polo, che si è cimentato e si sta cimentando in una serie di riforme, a cominciare da quella sul federalismo fiscale che poggia su una legge davvero innovativa. Per non dimenticare gli interventi nel personale della pubblica amministrazione o quelli nell’università. Solo per fare qualche rapido esempio.
Ma i conti non tornano nel tentativo di individuare nella figura di Fini e della sua cultura politica quella destra moderna, sul modello britannico, che lui sostiene di essere e qualche sprovveduto commentatore gli attribuisce. Il premier Cameron e i conservatori britannici stanno oggi muovendo in una precisa direzione, allo scopo di conciliare le opportunità economiche del libero mercato, nell’età della globalizzazione, con il conservatorismo sociale. L’obiettivo è quello di demolire il monopolio dello Stato e del mercato sulla società, decretando la fine di quella cultura del welfare che vuole proteggere il cittadino dalla culla alla tomba, ma anche l’archiviazione del saccheggio delle risorse individuali, redistribuite in modo iniquo attraverso la tassazione. Di fronte alla crisi economica, i conservatori britannici rivalutano le comunità territoriali, con le loro economie - che possono fronteggiare la globalizzazione, arginando i risvolti negativi e sfruttando le opportunità di crescita - e le loro strutture sociali, intese quale elemento di stabilità del sistema. È il modello del conservatorismo civico comunitario.
Fini e il Fli incarnano tutto ciò? Questa è la linea politica del nuovo partito e questi sono i suoi principi teorici? Non ci pare proprio.

Solo alcuni esempi: l’iperstatalismo di cui egli stesso - deputato sin dagli anni Ottanta - è l’incarnazione, l’assistenzialismo a favore del Mezzogiorno, la cultura di un welfare che sta dissanguando le casse del Paese e ha letteralmente scardinato i conti pubblici, l’antifederalismo. Questo basta per dimostrare quanto sia vecchia la struttura ideologica di Fini e del suo partito. E quanto sia lontana da una destra moderna di ispirazione britannica.

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