«Giuseppe Conte chiuse l’Italia per non chiudere la Lombardia». L’amara verità emerge dal verbale dell’audizione in commissione Covid dell’ex Dg della Prevenzione del ministero della Sanità Ranieri Guerra, desecretata nel pomeriggio. Dal suo racconto - osteggiato dall’Oms di cui è stato numero due - emerge uno scenario desolante. Un Paese paralizzato «dove i casi erano quasi a zero». Una Lombardia pronta a esplodere, mai davvero chiusa. E un governo che, di fronte al caos, scelse la via più semplice: fermare tutti. Da qui la decisione sul lockdown nazionale, nato dal fallimento del sistema di sorveglianza e da una raccolta dati inaffidabile, più che da un disegno scientifico consapevole.
Rispondendo al capogruppo di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, Guerra ricostruisce il contesto di quelle ore: «Ricordo anche come la decisione del lockdown iniziale, quello a livello nazionale, fu presa con una concentrazione dei casi estremamente elevata in Regione Lombardia, anzi prevalentemente a Cremona, Bergamo e Brescia più che in tutta la Lombardia, con Piacenza in Regione Emilia Romagna, qualche cosa che cominciava a insorgere a Torino, ma il resto d’Italia non era così pesantemente colpito. Ricordo anche un’interlocuzione avuta con il presidente della Regione Calabria dell’epoca, poi defunta, che mi chiese: qui non abbiamo assolutamente niente, perché diavolo dobbiamo stare a casa tutti quanti e non farci vedere nelle strade? In quel caso si tratta anche di avere degli strumenti per una sorveglianza e una diagnostica in tempo reale, che ci permettano di tenere aperto oppure di chiudere in maniera documentata e mirata».
Le sue parole rispecchiano le indiscrezioni rilasciate al Giornale dall’ex membro del Cts e fotografano il paradosso: del 2020: il Paese venne chiuso alla cieca, senza una reale mappatura dei contagi, per assenza di strumenti affidabili di diagnosi e monitoraggio. È stata la Antonella Zedda (FdI) a riportare l’attenzione sulla Val Seriana, epicentro del disastro sanitario lombardo: «Perché la Val Seriana non fu chiusa tempestivamente, nonostante fossero stati forniti al presidente del Consiglio tutta una serie di dati per giustificarne la chiusura? Ricordo che dagli episodi in Val Seriana alla data del lockdown nazionale passarono circa due settimane».
La risposta di Guerra rivela l’altra metà della verità: «L’unica variabile rilevante che aveva un minimo di significatività statistica era, appunto, la tempestività dei lockdown, ma ciò non ci deve sorprendere più di tanto: è evidente che se si blocca la circolazione delle persone che trasmettono il virus, si blocca anche la trasmissione del virus. Lo sappiamo. Le devo anche dire, però, che buona parte dei codici Ateco, molto presenti in Val Seriana e in tutte le strutture produttive del Paese, hanno continuato a circolare anche durante il lockdown, perché erano comunque essenziali per la sopravvivenza del Paese. [...]Il collega dell’Inail che partecipava alle riunioni del Cts su questo era stato estremamente preciso. La stima è che intorno al 40 per cento dei codici Ateco italiani non si siano mai fermati e che abbiano continuato a lavorare e a farlo molto bene per quanto riguarda questo tipo di supporto».
Il «fermo totale» dunque non ci fu mai. L’Italia si chiuse, ma il virus continuò a viaggiare dentro le fabbriche, nei magazzini, nei trasporti, in quell’intreccio di attività che nessuno osò davvero bloccare. La Zedda torna all’attacco, citando le parole scritte dallo stesso Guerra nel suo libro «Bugie, veritá e manipolazioni. Controstoria della pandemia»: «Di fatto per ragioni o per catena di responsabilità ancora da chiarire, non si è arrivati nemmeno alla chiusura della Lombardia, ma direttamente a un lockdown nazionale che aveva il sapore di una sconfitta. Era l’unica alternativa rimasta nell’impossibilità di un accordo tra governo, Regioni e sindaci e direi associazioni di categoria». Un disaccordo per motivi ideologici più che scientifici, è il caso di ricordare, con la Lega in Lombardia e M5s a Roma su posizioni sempre diametralmente opposte. «Il risultato fu un lockdown paradossale, solo parziale, dove sarebbe servito di più - lo ha detto anche prima - in Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna, e totale nel resto Italia dove i casi erano quasi a zero. Le chiedo - dice ancora la Zedda a Guerra - se ci può confermare che la mancata chiusura della Lombardia e la scelta di fare un lockdown nazionale furono un’evidente scelta politica che contrastava totalmente con un’evidenza scientifica, in riferimento a quello che lei scrive nel suo libro».
E Guerra conferma, con il distacco di chi ha visto tutto dall’interno: «Credo, sempre con il senno di poi, che una verifica dell’effettiva presenza virale, dell’effettiva presenza di casi e di contagiosità estesa in tutte le Regioni si sarebbe dovuta e potuta probabilmente fare. [...]È evidente che se avessimo avuto un sistema di sorveglianza sulle acque reflue e una capacità di tampone e lettura diagnostica immediata o rapida (senza i due o tre giorni che si dovevano attendere in quel momento per avere una diagnosi), probabilmente le informazioni e le evidenze che si sarebbero potute fornire al decisore politico sarebbero state diverse e probabilmente - forse - la decisione politica avrebbe seguito questa evidenza».
Una dichiarazione che pesa come una condanna: l’Italia scelse di chiudere tutto perché non sapeva cosa stesse davvero accadendo. L’Italia era un aereo che volava senza radar. Il presidente della commissione Marco Lisei incalza l’ex numero 2 Oms con una domanda semplice e brutale: «Ha senso applicare il lockdown su una popolazione priva di contagi?». E Guerra replica: «Se fossimo sicuri che quella popolazione è priva di contagi, magari sì, non avrebbe senso. Se invece abbiamo evidenza che c’è una coorte [...]su cui non abbiamo una conoscenza seria e approfondita di asintomatici, presintomatici, paucisintomatici o di viaggiatori che provengono da zone dove il contagio è diffuso e non hanno controllo, perché le frontiere interne non esistono, magari sì». Quindi, secondo Guerra, «la lettura immediata è: se non ci sono casi clinici, inutile applicare un lockdown. La lettura approfondita invece dice: se non viene applicato un lockdown, c’è rischiosità che ci sia un’esplosione epidemica analoga a quella delle zone maggiormente colpite all’inizio dell’epidemia. Credo che questa sia la valutazione che è stata fatta. Poi è ovvio che se avessimo avuto un sistema di sorveglianza basato sul dato oggettivo, piuttosto che sul tampone volontario, e una rapidità diagnostica che in quel momento non esisteva, avremmo potuto modulare le chiusure in maniera dettagliata e precisa».
Il racconto di Ranieri Guerra mette a nudo il cuore del disastro: l’Italia non chiuse per eccesso di prudenza, ma per difetto di conoscenza. Non esistevano dati certi, non esisteva una rete di sorveglianza reale, non esistevano strumenti diagnostici in grado di distinguere il contagio dalla paura. Le decisioni vennero prese «al buio», guidate da modelli incompleti e informazioni parziali, mentre le regioni «quasi a zero» venivano rinchiuse insieme a quelle devastate.
Il lockdown nazionale non fu una misura sanitaria: fu un atto di disperazione istituzionale.