di Cristiano Gatti
Si firma «Biancamaria, mamma di Delia». Tutte le mamme e tutti i papà di certi figli originalissimi non si presentano mai con un titolo proprio, si considerano soltanto appendice. Non è difficile capire perché: una loro identità personale non esiste materialmente più, chiamati come sono da un amore particolare e totale a vivere in subordine, mettendo sempre al centro i bisogni, gli stati d'animo, gli umori della loro creatura fragile e smarrita.
Cara mamma di Delia, lasci che a scriverle stavolta siamo noi. Lei ha trovato il coraggio per uscire dalla sua intimità faticosa e complessa, noi abbiamo il dovere di non farla cadere nel vuoto. Ce lo faccia dire: nell'Italia crepuscolare dei lamenti e della rassegnazione, questo suo gesto arriva come un meteorite in caduta libera da altezze cosmiche. In poche righe trasmette tutto il senso doloroso, ma così elevato e pieno, di una vita dedicata alla sua amata ragazza, incapace di bastare a se stessa. Potrebbe farlo intingendo la penna nella rabbia e nella recriminazione, per tutto quello che il mondo attorno a lei ignora, trascura, scansa, umilia. Invece se ne esce trionfante con la sua ricetta personale, la sua formula inarrivabile di welfare domestico, l'unico che nessuna politica sociale e nessun programma di partito riuscirà mai a sostituire, tanto meno a eguagliare: «Unica terapia, l'amore della famiglia».
E ancora: non rimpiange un'altra vita, la vita più leggera e più godibile che magari le sarebbe toccata senza quella sua figlia così candidamente invadente, così legittimamente incontentabile, così teneramente piena di pretese. No, parla con dignità della sua, di quella che le è toccata, vincendo la più inspiegabile delle lotterie, un figlio piccolo per sempre. E la racconta così, «la mia vita, questa sì, ricca e piena...».
Signora mamma di Delia: la sua lettera è bellissima perché non solletica il pietismo, quel particolare genere di pietà che serve soltanto a chi la dà, per sentirsi migliore, lasciando a chi la riceve l'umiliazione. Di più: non cade neppure nella tentazione opposta di esibire pateticamente la sua avventura come un idillio invidiabile, quasi una fortuna sfacciata, per un'esperienza così carica di gioie e di significati. Non a caso, confessa sinceramente il peso che accompagna tutti i giorni, ma più che altro tutte le sere, appena spenta la luce, con la testa sul cuscino, i genitori dei figli come Delia: finché ci sono io è al sicuro, ma dopo? Che ne sarà, dopo? «Penso alla pesante eredità che lascerò agli altri...», scrive con parole pesantissime. Tra tutte le angosce che possono agitare l'anima degli esseri umani, questa certamente è la peggiore: perché chi la vive se la porta nella tomba, senza sapere come sarà il finale.
A fronte di tutto questo, abbiamo la richiesta a sorpresa. Nella soave nazione che concede allegramente sussidi ai ciechi che guidano e agli storpi che ballano, la mamma di Delia non chiede soldi. Lo Stato le ha già chiarito, senza bisogno che arrivasse la spending-review, come si colloca davanti alla sua lunga carriera di mamma indefessa e valorosa: «Nessuna pensione, non hai mai lavorato». Non c'è problema, non la pretende. Non pretendono nulla, tutte le mamme di tutte le Delie. Questa, che sicuramente ha il gusto dell'ironia e della provocazione, lancia una proposta molto più raffinata, perfetta per scuotere le liturgie e i cerimoniali del pachiderma burocratico: «Chiedo con rispetto e con forte convincimento l'onorificenza di Cavaliere della Repubblica. Sperando che questa richiesta non susciti l'ilarità in chi legge». Guai a loro: non se la devono permettere, l'ilarità.
Forse, dalle sue vacanze a Stromboli, il presidente Napolitano leggerà prima o poi la lettera di questa italiana. E certo saprà come rispondere. Nell'attesa, carissima mamma di Delia, stia serena. Noi saremo qui pronti a registrare la fine della storia, fosse domani o fra un anno. È il minimo che le dobbiamo. L'accompagni però una certezza: anche se Napolitano non la riterrà degna di un titolo, lei sarà comunque il Cavaliere della Repubblica ideale per tutti noi, suoi connazionali, orgogliosi di vivere nella sua Repubblica.
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