Eccolo allora il vero volto della crisi. Non si chiama spread. Non è soltanto il debito pubblico. Il suo nome è molto più concreto. È quello che ti manca quando vai al supermercato o fai i conti con il mutuo e l’ultima bolletta. La crisi è lì, nello stipendio, nel salario, nella busta paga, nel valore del tuo lavoro. Insomma, nei soldi. Quelli che arrancano a fine mese e sono sempre di meno. Siamo arrivati finalmente al nocciolo della questione e non serviva neppure andare a sbirciare i numeri dell’Eurostat o dell’Adoc. Si sapeva già, ce ne eravamo accorti.
Lo stipendio medio lordo degli italiani è la metà di tedeschi, olandesi e Lussemburgo. Da noi 23.406 euro l’anno, lì oltre quarantuno, quarantaquattro, quarantotto. Vabbè, magari nell’Eurozona c’è qualcuno che sta peggio. In Irlanda, per esempio? No, guadagnano più di noi. Spagna? Idem. Cipro? Stesso discorso. Grecia, almeno in Grecia. Niente da fare. Perlomeno fino al 2009 anche la sfortunata Atene se la passa meglio. Peggio di noi solo portoghesi, maltesi, sloveni e slovacchi. Non consola. Anche perché a leggere questi cavolo di dati sembra che non possiamo neppure contare sulla speranza. In Italia è come se il treno si fosse praticamente fermato. Negli ultimi quattro anni i salari sono aumentati del 3,3 per cento. In Portogallo del 22%, in Spagna del 29,4%, in Olanda del 14,7%, in francia del 10%, in Belgio del 11%, in Germania del 6,2%. Le statistiche poi, come raccontava Trilussa con i suoi polli, sono ancora più beffarde. Basta pensare ai super stipendi dei manager pubblici (che non entrano nella ricerca Eurostat) o al dislivello tra Nord e Sud. La verità è che questa crisi ti sfregia il portafoglio.
Quel che resiste della ricchezza degli italiani è nei risparmi del passato, nel «welfare familiare», nelle abitudini di un Paese un tempo ricco, nella spesa pubblica che purtroppo continua a finire nelle tasche dei furbi, lasciando nudi i deboli e in tutto quello che ci siamo lasciati alle spalle. L’orizzonte oscuro è invece davanti, nel futuro. Bisogna uscire da questo clima da Apocalisse che ci siamo cuciti addosso da parecchi anni. Dobbiamo fare i conti con quanto ci è costato l’euro e con la paura di rischiare delle imprese. In Italia si guadagna poco perché non si investe. Non si investe perché non ci sono più soldi in giro. Non c’è credito. Le tasse sono mortali. E senza soldi, senza impresa, senza coraggio non c’è neppure più lavoro. È un mercato fermo, ostruito da un muro, chi esce è fregato, chi è dentro si accontenta di quello che passa il convento.
Monti e i suoi tecnici dovranno fare i conti con il volto reale della crisi. Qui a farci paura non sono più i mostri da videogame di Tremonti. Fa paura il giorno dopo, andare avanti. Il ministro Elsa Fornero, che ha già pianto per i pensionati, dice che «abbiamo salari bassi e un costo del lavoro elevato. Bisogna scardinare questa situazione, soprattutto aumentando la produttività». Non ha neppure più senso dirlo. Le questioni che non si possono più rinviare sono la riforma del mercato del lavoro e diminuire il peso fiscale sui salari. Lo stipendio dei dipendenti italiani per il 42,9 per cento finisce in tasse, un po’ meno della Danimarca, lì almeno il Welfare bene o male funziona. Ergo: già si guadagna poco, poi lo Stato finisce di rovinarti. Il risultato è che la sopravvivenza di questo Paese è affidata al lavoro nero. È un labirinto da cui non si riesce a uscire. Monti si sta muovendo sulla prima parte: ridurre il debito, castigare evasione e nero. Ma come l’ex rettore sa benissimo il futuro dipende dalle tasse. Aumentare la produttività. Peccato che lo Stato castighi anche gli straordinari.
Il paradosso è che chi rischia di più, i lavoratori precari, sono quelli che stanno pagando il prezzo più alto della crisi. Non solo condividono il rischio d’impresa, ma guadagnano poco e lo Stato non fa sconti. Su mille euro di stipendio lordo quello che ti resta in busta paga a fine mese sono circa 643 euro. La beffa è che nessuno di loro avrà una pensione degna.
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