Così perde la meritocrazia e vince il «tengo famiglia»

di La Nestlé è un'azienda privata e, nel rispetto delle leggi, è legittimata a fare qualsiasi proposta ai propri dipendenti, i quali poi sono liberi di accettarla o no. Dopo la doverosa premessa, aggiungo: personalmente sono contrario, come la Cgil, al diritto dinastico applicato al posto di lavoro: il papà anzianotto, ma non troppo, che si autoriduce l'orario di attività in fabbrica, o in ufficio, e il figlio che gli subentra per integrarlo. Ma i motivi della mia contrarietà alla bizzarra soluzione sono diversi da quelli addotti dal sindacato rosso.
Secondo i rappresentanti delle maestranze è sbagliato trasformare il full-time dei padri in part-time per consentire analogo part-time all'erede, perché di fatto nessuno dei due, nel caso, avrebbe uno stipendio decente. Il ragionamento non tiene: se in una famiglia entra un salario e mezzo, anziché uno solo, è meglio. Inoltre, occorre precisare che la Nestlé non obbliga nessuno a fare simile scelta: trattasi semplicemente di facoltà. Quindi lo sciopero indetto dalla Cgil è assurdo. Quando si dice che i sindacati tutelano sempre meno gli interessi dei lavoratori, si manifesta una verità.
Al di là di questo, è il principio della successione automatica che lascia perplessi. Già l'Italia è considerata un Paese incapace di superare la mentalità familistica; se poi le imprese importanti, invece di combattere tale mentalità, vi si adeguano contrattualizzando il passaggio di consegne dai genitori alla prole, addio possibilità di progredire e di introdurre la meritocrazia nei criteri di assunzione del personale. Non va bene.
Non è una novità che la disoccupazione giovanile in Italia sia una piaga in continua espansione, e un ragazzo che trova un posto trova un tesoro. È profondamente diseducativo che sia il padre a garantirglielo, con la complicità dell'azienda, rinunciando a qualcosa di proprio. Un'impresa seria, quale è di sicuro la Nestlé, dovrebbe sapere che il lavoro, contrariamente a quanto recita la Costituzione (ricca di ridondanze), non è affatto un diritto, ma una conquista che ciascuno deve fare. Come? Costruendosi una qualsivoglia professionalità che lo renda idoneo, più di altri concorrenti, a ottenere un determinato incarico.
Nell'impiego pubblico la selezione del personale avviene attraverso concorso per titoli ed esami, ciò che in teoria dovrebbe consentire di premiare i migliori soggetti; in pratica non sempre è così perché dalle nostre parti si trucca tutto, figuriamoci i concorsi. Nel settore privato, ancora in teoria, dovrebbero essere i curriculum (mi rifiuto di declinare) a determinare la graduatoria; ma anche qui, l'esperienza insegna, prevale la raccomandazione più influente.
Questa è la realtà. Non piace a nessuno. Eppure chi si impegna a modificarla? Se ora ci si mettono anche le multinazionali a creare corsie preferenziali per alcuni, figli di papà dipendenti, non c'è più speranza che vengano rispettate le pari opportunità. L'ereditarietà del posto è inaccettabile. Contrasta appunto con la meritocrazia che pure, nei dibattiti giornalistici, è stata elevata ad argomento centrale. Se si consolida l'idea che lo stipendio è un bene trasmissibile per via testamentaria, i nostri figli e nipoti si convinceranno - forse lo sono già - dell'inutilità di studiare, di imparare un mestiere, di accumulare esperienze in vari campi allo scopo di ottenere un'assunzione, in pianta più o meno stabile.

Fatica sprecata, essi penseranno erroneamente.
Sarà poi la vita, comunque, a obbligarli a mutare opinione. In effetti il problema dei giovani da migliaia di anni si sistema sempre allo stesso modo: basta lasciarli invecchiare.

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