Crolla l'alibi «macchina del fango»

Crolla l'alibi «macchina del fango»

RomaÈ il 25 settembre 2010. Un Gianfranco Fini abbronzatissimo affida a una telecamera il suo messaggio all'Italia che aspetta da settimane una sua parola chiarificatrice sulla vicenda della casa di Montecarlo. Lui è teso e impacciato: «Se dovesse emergere con certezza - garantisce - che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a lasciare la presidenza della Camera, non per personali responsabilità, che non ci sono, bensì perché la mia etica pubblica me lo imporrebbe». Una promessa che è opportuno ricordargli, ora che la «macchina del fango» ha cambiato piloti e i colleghi dell'Espresso parrebbero avere messo la parola fine sulla triste vicenda tirata fuori nell'agosto 2010 dal nostro giornale, legando una volta per tutte il nome del cognato di Fini alla proprietà dell'appartamento di boulevard Princesse Charlotte.
Facile parlare di dossieraggio, di campagna a orologeria, di fango. Da due anni e passa serve a evitare di dare risposte. È il vice di Fini, Italo Bocchino, il 9 agosto 2010, a parlare per primo di «metodo della bastonatura mediatica» al quale Berlusconi «ha dato vita, o che ha tollerato con l'unico obiettivo di piegare Fini alla sua linea». Il 23 settembre, due giorni prima del videomessaggio di Fini, ancora Bocchino ospite ad Annozero parla di «patacca» e garantisce: «Dalle indagini da noi fatte risulta che il cognato di Fini non è proprietario delle società di cui, guarda caso, parla il giornale di proprietà della famiglia del presidente del consiglio» grazie a «un'operazione di dossieraggio in Italia e all'estero, anche con stanziamenti di somme».
Passano i mesi, Fini esce dal Pdl per fondare Futuro e Libertà ma non molla lo scranno che domina Montecitorio, malgrado il cognato Giancarlo Tulliani venga paparazzato ancora una volta a Montecarlo. A fine gennaio 2011 al Senato il ministro degli Esteri Franco Frattini torna a chiedere le dimissioni di Fini e sono ancora i dioscuri di Fini a difenderlo: «Il vero mandante del dossier è Berlusconi, Frattini il fattorino», attacca Bocchino. «È un'operazione di marca goebelsiana», azzarda Benedetto Della Vedova. «Do una notizia per chi ha a cuore la verità: la casa di Montecarlo non è del signor Giancarlo Tulliani. Abbiamo qui le carte, le ho portate. Carta canta, villan dorme», assicura incautamente Giuseppe Consolo.
E siamo al settembre 2012, quando la lettera di Lavitola a Berlusconi ridà fiato a Gianfranco Fini: «ll signor Berlusconi è un corruttore - dice l'ancora presidente della Camera a Otto e mezzo - e ora se vuole mi quereli. Io parlo agli elettori, a me dispiace che tanti amici non abbiano capito qual è la natura del Pdl. Provo disgusto nei confronti di una persona che davvero merita di essere conosciuto per quello che autenticamente è. E non mi riferisco a Lavitola». Il nostro giornale pacatamente ricorda a Fini, al di là delle cortine fumogene sparate dal lentigginoso faccendiere napoletano, le venti questioni ancora aperte sull'affaire Montecarlo.

La più importante è la prima: «C'entra Lavitola con la coincidenza che nell'appartamento della contessa Colleoni a Montecarlo donato ad An, di cui lei era presidente, tra milioni di potenziali inquilini ci sia andato ad abitare proprio suo cognato Giancarlo?». No, Lavitola non c'entra. Ed è l'Espresso, e non i diabolici infangatori al soldo di Berlusconi del Giornale, a ricordarlo oggi al presidente (dimissionario?) Fini.

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