Non può non esserci un perché. Un orrore così non può rimanere senza risposta, senza la risposta, l'unica cosa che abbia senso dopo tutta questa violenza, dopo questa apparente follia. Ed è troppo facile usare proprio la parola «follia»: cancella tutto, spiana qualunque altra spiegazione, annulla la voglia di cercare appunto quella risposta. No, non può bastare, perché sarebbe come dire che tutto è davvero possibile. Ci dev'essere un motivo, per quanto assurdo e ingiustificabile. Un uomo che uccide, anzi massacra, la
moglie e i due figli, poi va a vedere la partita dell'Italia per darsi un alibi, esulta, parla con gli amici, poi torna a casa, fa finta di trovare la famiglia sterminata, simula di essere vittima per 24 ore e poi confessa di essere l'assassino non può cavarsela con la pazzia di un momento. Se non lui, la psicologia e i magistrati ci devono dire perché è successo, com'è possibile pensare e realizzare un omicidio così agghiacciante. Qualunque padre e qualunque madre meritano una risposta, non possiamo lasciare che pensino «se è successo a lui può succedere anche a me». Perché il ritratto di quest'uomo fatto prima della confessione era quello di una persona felice, sana, pacifica, innamorata della sua famiglia. Un uomo qualunque, uno di noi, che poi diventa un avatar malvagio. Non è mai successo nella storia della cronaca nera che un assassino non abbia mai mostrato i semi della sua violenza. Quello di Motta Visconti non può essere il primo caso. Vi ricordate il caso di Novi Ligure? In quella mattanza il movente era l'odio di una figlia nei confronti di un genitore, la droga aveva accelerato la voglia di violenza. La spiegazione, per quanto inaccettabile, c'era. Questo non può essere il primo fatto in cui ci si nasconde dietro il raptus inspiegabile.
Così come non può essere vero che dietro le famiglie normali si nascondano mostri in grado di trasformarsi senza un perché. Le famiglie felici esistono davvero. Non le vogliamo chiamare «normali» perché pare brutto nei confronti degli altri? D'accordo, definiamole serene o tranquille, però ci sono. Quelle dove si litiga, dove i genitori discutono, s'arrabbiano tra loro o con i bambini, dove i figli vengono rimproverati se sbagliano, vengono anche puniti se è necessario, ma dove ci si vuole bene. Forse c'abbiamo vissuto o ci viviamo. Le conosciamo. Non sono quelle della pubblicità, sono vere. Nella notte tra domenica e lunedì, Marco Belinelli ha vinto il titolo Nba, primo italiano nella storia. Gli hanno fatto una domanda banale, forse la più banale: a chi lo dedichi? E lui: ai miei genitori, perché hanno sempre creduto in me. Nessun altro ha creduto in me e alla fine ho vinto. Mentre lo diceva piangeva, Belinelli. Per l'emozione, per l'amore, per riconoscenza. Esistono le famiglie dove ci si sostiene.
Le lacrime di Belinelli sono la risposta a chi dice che la normalità non esiste. Eccola: i padri e le madri sostengono i figli, a prescindere. I figli crescono e se lo ricordano, che vincano o che perdano nella vita. Si chiama amore: esiste, è intorno a noi. È il bene che contrasta il male.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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