Ci risiamo. I teatri lirici italiani tornano nella bufera, travolti da polemiche che nulla hanno a che fare con Giuseppe Verdi, Richard Wagner o Alban Berg. A Firenze, per decisione del ministro Lorenzo Ornaghi, la sovrintendente Francesca Colombo è stata fatta dimettere e presto il suo posto sarà preso da un commissario nominato dal ministero. In una conferenza stampa, Colombo ha reagito con veemenza alla scelta di Ornaghi, definendosi una «vittima della politica» e chiamando in causa il sindaco di Firenze Matteo Renzi: «Tutto quello che ho fatto l'ho fatto d' accordo con lui, non c'è mai stata divergenza. Il mio rapporto con il sindaco è rimasto uguale ed è ottimo. E anche lui è stupito di questo atto». Ma la situazione è in grande agitazione anche lontano dalla città di Firenze.
Dopo che nei giorni scorsi Ornaghi aveva annunciato un contributo straordinario a favore della Scala (il cui buco di bilancio supera i quattro milioni), si registrano le reazioni di quanti si considerano penalizzati. Il sovrintendente dell'Accademia Santa Cecilia di Roma, Bruno Cagli, ha sostenuto che se fosse davvero così, si tratterebbe di una «vera e propria discriminazione che giustificherebbe il sospetto di una gestione non equa dei contributi pubblici». Ma c'è rivolta anche in Veneto, dove il vicepresidente della giunta regionale, Marino Zorzato, ha preso le difesa della Fenice veneziana e dell'Arena veronese, augurandosi che «la notizia sia priva fondamento perché, nel caso dovessimo scoprire che i soldi dei contribuenti servono per azzerare una gestione con tutta evidenza sprecona, ci sarebbe da porre qualche domanda seria a chi guida il Paese in un momento in cui si dovrebbe pensare solo all'ordinaria amministrazione». E ora c'è chi domanda che i soldi destinati alla Scala siano ripartiti tra le varie fondazioni liriche.
Qualche considerazione generale va fatta. Iniziando con il sottolineare come la musica dovrebbe imparare a camminare sulle proprie gambe, uscendo dalle logiche asfittiche di finanziamenti statali in vario modo discriminatori e politicamente orientati. È per giunta davvero infelice la scelta di andare in soccorso delle cattive gestioni: se proprio si deve favorire qualcuno, è sempre bene che sia chi ha i conti in ordine.
Soprattutto sarebbe anche una buona cosa che ogni eventuale presenza pubblica (perché certamente non è facile affrancare in breve tempo il teatro o il cinema dalla lunga mano del potere e dalla droga dei soldi dei contribuenti) sia localmente finanziata. Se i milanesi vogliono la Scala, è meglio che a pagare sia un Comune che vive di imposte localmente riscosse. Solo questa vicinanza tra chi paga e chi riceve può generare una gestione più accorta.
Ha dunque ragione chi contesta gli aiuti a favore del teatro meneghino. E però è pazzesco che una Lombardia che ogni anno è penalizzata di ben 60 miliardi di euro (perché a tanto ammonta la differenza tra quello che i lombardi versano allo Stato e il costo dei servizi che ricevono) debba pietire quei soldi da un ministero romano. Una vera riforma del settore, insomma, passa dalla cancellazione del Fus (Fondo unico per lo spettacolo) e del ministero stesso.
Va anche aggiunto che vi sono analogie tra lo sfascio del sistema bancario, alle prese con fondazioni di nomina politica che hanno generato gestioni assai discutibili, e i problemi (per fortuna su scala ben più ridotta) di quel teatro lirico analogamente dominato da relazioni di ordine politico. L'Italia civile e dinamica dei secoli scorsi, strutturata attorno a piccole realtà cittadine in concorrenza tra loro, ha regalato al mondo le banche e l'opera lirica: ha inventato la cambiale e dato i Natali a Monteverdi.
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