Una telefonata e un pizzino. Una chiamata per ottenere finalmente una sentenza impantanata da quasi sette anni. Un biglietto girato al collega dell'accusa prima dell'udienza per segnalare una delle due parti in causa. Domenico Iannelli, avvocato generale della Cassazione e Eduardo Scardaccione, sostituto procuratore generale e simpatizzante di Magistratura democratica. Il primo è stato condannato, il secondo assolto. Attenzione: Iannelli aveva solo chiesto che il procedimento, dopo un'attesa così sfiancante, in un modo o nell'altro arrivasse ad un finale. Ma per la giustizia disciplinare basta sollecitare un provvedimento, sia pur vergognosamente in ritardo e scandalosamente non all'altezza degli standard europei per realizzare un favoritismo. Favoritismo che invece, secondo i giudici delle toghe, non si è realizzato nell'altra storia, con la «raccomandazione» in vista dell'udienza. Nel caso del magistrato di Md vale un altro principio: non c'è interferenza perché l'oggetto delle attenzioni, «grossolane» a dire dello stesso Csm, non era il giudice ma il sostituto procuratore generale, insomma l'accusa. Così va la giustizia in Italia.
La vicenda Iannelli si svolge alla fine del 2004. Un parente alla lontana è in causa con una società davanti al tribunale di Vibo Valentia. Il procedimento è iniziato nell'ormai lontano 1998 e non è ancora arrivato alla conclusione. Un disastro. In altri Paesi europei sarebbe già intervenuto il ministero o chi per lui a sollecitare e a chiedere il perché di quell'inammissibile ritardo. In Italia invece le cose vanno diversamente. Il parente preme, Iannelli ci pensa e poi decide di contattare un collega in pensione, il presidente della regione Calabria Giuseppe Chiaravalloti, perché intervenga a sua volta sul giudice Serena Pasquin, poi arrestata per altre vicende. Un'intercettazione sull'utenza di Chiaravalloti dell'ottobre 2004 è la prova che basta al Csm per innescare la condanna. Certo, come il Giornale ha documentato ieri, non sempre le intercettazioni sono state utilizzate per sanzionare un comportamento non consono. Nel caso di Paolo Mancuso, esponente di Magistratura democratica a Napoli, si è stabilito di tenerle fuori dal procedimento disciplinare. Ma stavolta non va così: i nastri hanno via libera ed entrano nella causa.
Iannelli si difende: ha solo spinto per una definizione del fascicolo, senza aggiungere altro. Ma il tribunale delle toghe non accetta il suo ragionamento e lo condanna, sia pure alla pena soft dell'ammonimento. E in appello, il 15 giugno 2010, le sezioni unite civili della Cassazione rincarano la dose: «La sezione disciplinare, sostanzialmente, nel formulare il giudizio di responsabilità prescinde dalla condizione che l'interferenza debba essere rivolta ad ottenere una condizione favorevole, ritenendo che integri l'ipotesi dell'interferenza ingiustificata, anche quella diretta ad ottenere una più sollecita definizione di un procedimento, risolvendosi anch'essa in un indebito favoritismo nei confronti della parte che è venuta a beneficiare del favoritismo». Chiaro? Due successivi organismi disciplinari affermano che implorare un giudice perché dopo quasi sette anni finalmente emetta il verdetto non è un richiamo alle regole elementari del diritto e della civiltà ma un «favoritismo». Certo, la Corte di Strasburgo potrebbe anche condannare l'Italia per un causa ancora ferma in un cassetto dopo un periodo così lungo, ma questo pare essere un dettaglio. Quel che conta è l'intervento, sia pure indiretto.
Nell'altro procedimento disciplinare, quello del magistrato di Md Scardaccione, l'intervento c'è eccome ma per il tribunale delle toghe non è poi così importante. No, non è un'interferenza. È solo uno spiacevole scivolone da perdonare e dimenticare al più presto.
È il dicembre 2009. E Scardaccione, sostituto procuratore generale della Cassazione, manda un biglietto al collega che sarà in aula per l'udienza del 12 gennaio 2010. Fra gli altri ricorsi ce n'è uno che evidentemente interessa all'autore del pizzino; è quello promosso dal titolare di una casa di cura che è stato condannato in sede civile e Scardaccione si sbilancia non poco nel segnalare il personaggio: gli spiega di «conoscere i fatti perché in quella clinica ho subito tre interventi chirurgici (con ottimi risultati)». Aggiunge che, a suo parere, «il ricorso è fondato», poi chiude: «Valuta in piena coscienza e fammi sapere». Segue postilla. «È sufficiente anche un cenno tramite un commesso».
Come dobbiamo chiamare questo intervento a piedi uniti? Non è un'interferenza, tanto quanto e forse più di quella del magistrato che ha telefonato al collega per far uscire dalla palude una causa sprofondata in letargo da troppo tempo?
No, per il tribunale del Csm non c'è problema. «Sia ben chiaro - mette le mani avanti il Csm nella sentenza del 18 giugno 2010 - che l'iniziativa del dottor Scardaccione si è rivelata inappropriata, inopportuna, ingenua, grossolana e comunque inimmaginabile in un magistrato dall'esperienza e dal rigore che ha sempre dimostrato nell'esercizio della sua attività». E allora?
E allora niente. Tutto quello che è appena stato detto viene prontamente rovesciato: «Proprio questa abnormità di comportamento suggerisce la soluzione pienamente assolutoria. Che esulasse nel dottor Scardaccione la consapevolezza e l'intenzione di interferire nell'attività giudiziaria e che quindi il suo comportamento fosse innocente risulta anche dalla circostanza di essere ricorso allo scritto e di aver affidato la conoscenza della risposta ad un commesso».
Certo, quando riceve il biglietto il collega resta di sale: «Sono rimasto sorpreso e imbarazzato, anzi addirittura incredulo per la grossolanità dello scritto». Tanto sconvolto da decidere di astenersi e passare la mano, non senza aver denunciato il fatto. Va bene, la cosa finisce lì. Il tribunale disciplinare non va oltre e chiude la partita: l'intervento sul pubblico ministero, a differenza di quello sul giudice, è piccola cosa. Un peccatuccio veniale o giù di lì: «Non si vuol certo sostenere l'inconfigurabilità di un'interferenza sull'attività del pubblico ministero, ma solo sottolineare che la diversa attività del pubblico ministero nel processo civile, e tanto più del procuratore generale in Cassazione, rende oggettivamente meno grave, e in determinate situazioni di nessuna o scarsa rilevanza, l'intervento sollecitatorio o la richiesta di informazioni».
Il pizzino corre verso l'assoluzione. La telefonata invece costerà una condanna a Iannelli.
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