
Era il 18 maggio 2023 quando a San Donato vennero aperte per la prima volta le porte del nuovo centro direzionale di Eni, il grande complesso immobiliare destinato a ospitare il quartier generale del colosso energetico di Stato: dopo sette anni di lavori, i 65mila metri quadrati progettati dall’archistar statunitense Thom Mayne sembravano pronti per ricevere i 4.600 impiegati e manager del cane a sei zampe, che dovevano traslocare in una sede al passo con i tempi, realizzata all’insegna della sostenibilità, dell’impatto «dolce», dell’autosufficienza energetica. Un fiore all’occhiello alla cui presentazione arrivò in persona Claudio Descalzi, numero uno di Eni, insieme all’amministrazione comunale di San Donato e ai vertici di DeA Capital, la società di gestione fondi proprietaria dello stabile, guidata da Emanuele Caniggia.
Poi, più nulla. Dadue anni è come se il tempo si fosse fermato. Le tre iconiche strutture - Landmark Tower, Icon Tower, Skygarden Tower - con il loro ponte sospeso di collegamento e le facciate in lamiera metallica microforata ed elettrocolorata «ispirati alla formazione geologica della Terra » sono lì, svettanti e inabitate. Abloccare tutto, secondo quanto risulta al Giornale, un duro scontro legale tra Eni e DeACapital. L’azienda pubblica, che dovrebbe secondo gli accordi prendere in affitto la sede dal fondo, si rifiuta di entrare in possesso dell’intera struttura sostenendo di avere rilevato una lunga serie di difetti di realizzazione, tali da rendere del tutto impossibile il suo utilizzo. E quello che si annuncia, visto il costo dell’opera (le cifre disponibili parlano di un appalto da 171 milioni), è un braccio di ferro tra i contraenti, destinato a dare da lavorare a lungo agli avvocati.
Che qualcosa non stesse andando per il verso giusto era evidente a tutti, visto il brusco alt del piano di inaugurazione e trasferimento degli uffici Eni nella nuova sede. Ora si viene a sapere dello scontro frontale, nonostante la discrezione con cui entrambi i contendenti hanno gestito la querelle. Interpellata ieri, Eni prosegue sulla strada della riservatezza: «Eni non commenta le fasi di confronto in corso tra le parti coinvolte, che rimangono confidenziali, e confida nella finalizzazione del progetto come da accordi contrattuali con le proprie controparti », dice l’azienda al Giornale. Ma è chiaro che quell’espressione, «confronto in corso», è un eufemismo che cela la durezza dello scontro in atto.
Quali siano i difetti che Eni rinfaccia a DeA è difficile da ricostruire nel dettaglio. Fonti attendibili dicono che l’elenco è lungo, e che la conclusione è pesante: il nuovo centro non rispetterebbe, a causa dei difetti riscontrati, alcuni degli standard di sicurezza indispensabili per poter venire utilizzato. Stando così le cose, Eni avrebbe spiegato al fondo di non avere alcuna intenzione di prendere possesso della struttura fino a quando i difetti trovati in sede di sopralluogo non verranno sanati. La trattativa è in corso da mesi, ufficialmente le due parti si dicono fiduciose sulla possibilità di arrivare a una soluzione concordata. Ma intanto il tempo passa, e le tre strutture restano disabitate. Disabitate le due torri, deserto il grande ponte sospeso in carpenteria metallica che nel 2019 venne sollevato con una operazione spettacolare a collegare le due strutture, la Landmark e la Iconic. Dei difetti che sostiene di avere individuato, Eni chiede conto a DeA Capital, suo interlocutore diretto, e a Enasarco, l’ente previdenziale dei rappresentanti di commercio, che ha investito nel fondo. Ma non si può escludere che il fondo chiami a sua volta in causaWebuild, l’azienda che ha materialmente eseguito i lavori: e che recentemente spiegava di avere realizzato l’opera utilizzando tecniche avanzate come «la tecnologia B.I.M.
(Building Information Modeling), che ha permesso di ottenere un progetto estremamente dettagliato a livello architettonico, strutturale e impiantistico». Doveva essere «un’opera simbolo di eccellenza ingegneristica e sostenibilità »: ma qualcosa, almeno secondo Eni, ha funzionato male.