Cronache

Ecco come salvare Pompei: farne un Club Méditerranée

Dovrebbe essere smontata e rimontata altrove. Perché è una città viva che paga i problemi di Napoli. E che può resuscitare solo se diventa cittadina del mondo

Ecco come salvare Pompei: farne un Club Méditerranée

C'è una maledizione di Pompei. Appare, a distanza, che sia il problema dei problemi. Gli occhi del mondo ci guardano e la metafora dell'Italia è questo sito archeologico nel quale il tempo si è fermato. Ed è ciò che lo rende diverso da altri, monumenti di un epoca morta, o, come nel caso del Duomo di Siracusa, trasformato con il tempo in altro, da tempio greco a chiesa cristiana, Pompei è ora. Entriamo e siamo nel 79 d.c. esattamente come, oggi, siamo a L'Aquila. Il vulcano, come il terremoto, ha fermato il tempo. Nessun grande sito archeologico, né la Valle dei Templi, né Pestum, né le Tombe etrusche a Tarquinia, è paragonabili a Pompei.

Queste sono aree limitate che il passato ci ha consegnato come città morte. Pompei è città viva. Ed è animata, popolata, vissuta, come una città contemporanea. Vi camminano turisti e non cittadini iscritti all'anagrafe, ma la situazione non cambia. Ed è per questo che un intelligente archeologo, Andrea Carandini, ha capito che Pompei non può essere amministrata da un sovrintendente o da un commissario, ma da un amministrazione comunale, con il sindaco e gli assessori che si dividono le diverse e necessarie competenze, e magari anche il consiglio comunale che valuta le proposte. Nel caso specifico Pompei avrebbe bisogno anche di un prefetto, per la sicurezza e l'ordine pubblico. Dunque Pompei, come afferma il ministro Bray, è una priorità. Esattamente come L'Aquila. Che, oltre a essere una priorità, è anche una vergogna. Pompei non è un vergogna, è semplicemente una «sede disagiata», come vengono considerate alcune ambasciate nei paesi difficili, dove ci sono guerre o rivoluzioni. O povertà. E «sede disagiata», come sappiamo, è gran parte del Meridione, con l'eccezione, forse, della Puglia. Quella che si chiama da sempre, «questione meridionale». Pompei, non avrebbe gli stessi problemi se fosse nel Nord Italia. E, forse, occorrerebbe trasferirla. Rimontarla altrove. Il suo disagio è lo stesso di Napoli. A Napoli si soffre fisicamente. Una cosa è abitare a Milano, a Bologna, a Asti, a Parma, a Ferrara, una cosa è abitare a Napoli, a Aversa, a Casal di Principe, a Ottaviano. A Napoli si sente il peso fisico, una fatica di vivere e di camminare con il traffico, gli edifici crollati, i capricci di de Magistris e l'immondizia, che è una metafora.

Evitiamo di parlare della criminalità organizzata e della sua pressione anche sulle aree archeologiche, ciò che rende ancora peggiore la situazione. Ma è proprio la condizione psicologica di miseria, di sciatteria, di euforia incolpevole dei napoletani che non hanno alcuna fiducia nello Stato, e che considerano Pompei come un Luna park per turisti, che toglie «aurea» a Pompei e la destina a una sopravvivenza senza dignità e orgoglio. Perché questo non sembri un ragionamento razzista dirò che è la stessa aria che si respira a Venezia dove il rapporto con il turista è altrettanto indifferente e cinico. Ma Venezia ha tratto qualche beneficio dalla bellezza. Napoli ha trasmesso la sua condizione di decadenza a Pompei e ne ha duplicato le caratteristiche negative. Né basteranno i finanziamenti italiani, quello annunciato di Salini, o il contributo europeo ottenuto dalla Regione, se gli amministratori di Pompei dovranno fare i conti con la burocrazia dello Stato che rende meridionale tutta Italia. La soluzione è stata data a Ercolano diventato porto franco. Questo è consentito quando la gestione è sottratta allo Stato.

Dunque Pompei potrebbe essere affidata in prima istanza, compresa la gestione dei fondi europei e dei fondi privati, al Fai, che non ha banchi di prova rilevanti in Meridione e che ha cercato e poi rifiutato di amministrare la Villa del Casale di Piazza Armerina perché non voleva rischiare annunciate ingerenze mafiose. E poi il Fai sarebbe ideale anche per Morgantina e la sua Dea, laconicamente posteggiata ad Aidone. Un'altra soluzione potrebbe essere quella di affidarne la gestione a Daniele Kihlgren, intellettuale e imprenditore italo-svedese, che ha inventato il modello di recupero e riabilitazione di Santo Stefano di Sessanio, riproducendolo anche nei Sassi di Matera. Santo Stefano come Pompei è una piccola città. Ma, vista la vastità dell'area, la proposta seria, non estemporanea o provocatoria, potrebbe essere, anche per il degrado ambientale, la più attuabile: militarizzare Pompei, sottraendola a ogni rapporto con l'ambiente culturale e criminale circostante. Isolare Pompei anche attraverso operazioni radicali di selezione turistica sollevandola dal destino di città meridionale per farla diventare una Città morta ideale nel cui perimetro definire anche accoglienza, ristorazione, attività ludiche e di intrattenimento come un Club Méditerranée di un tempo, o il prodigio di Ravello e di Taormina. Bisogna denapolenatizzare Pompei. Immaginarla in un altrove della storia. Un esempio: dove vanno a dormire le migliaia di turisti che arrivano ogni giorno a Pompei? Si contaminano negli alberghi delle città del nostro tempo. Dovrebbero iniziare ad abitare nelle case di Pompei e in un area residenziale attigua. Così Pompei, come vuole l'Unesco, diventerebbe un sito del mondo e non dell'Italia meridionale. Un impresa disperata ma necessaria.

Contro la maledizione.

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