Ecco la vera storia di «Md»: i giudici rossi che fanno politica

Così Magistratura democratica ha acquisito potere e condizionato le scelte dei partiti La regola sin dall'inizio: le toghe devono schierarsi e cercare il consenso della piazza

Cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario al palazzo della Cassazione
Cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario al palazzo della Cassazione

Sono di sinistra e hanno accompagnato la storia della sinistra italiana. I giudici di Magistratura democratica sono diventati anche uno dei più famosi brand d'Italia da quando il Cavaliere ha dichiarato loro guerra. Forse, ingenuamente, qualche anima bella penserà che chiamarle toghe rosse sia una forzatura del nostro bipolarismo muscolare, ma non è così. O meglio, la storia di questa costola del potere giudiziario è un riassunto delle ideologie, degli ideali, delle ubriacature, dei condizionamenti e delle illusioni che hanno animato il versante della magistratura che da sempre ha coltivato ambizioni progressiste. Risultato: in un sistema malato, in cui le toghe sono divise in correnti e le correnti compongono una sorta di parlamento parallelo, Md è uno degli attori del sistema politico italiano. Inutile scandalizzarsi: in Italia, come ha spiegato a suo tempo Antonio Ingroia al Giornale, «la magistratura si concepisce per metà come corporazione per metà come contropotere». Ecco, Md è o dovrebbe essere, perché poi spesso è diventata il suo esatto contrario, il contropotere che si oppone alla presunta casta, coglie le sensibilità più profonde del Paese, cattura le esigenze e le istanze sociali più avanzate, capovolgendo gli equilibri reali dentro le istituzioni.

Si può essere d'accordo o no, ma questo è un po' il senso dei tanti manifesti e proclami e documenti elaborati in questi lunghi anni dalle teste d'uovo della corrente. Citiamo, per esempio, Livio Pepino con il suo articolo Appunti per la storia di Magistratura democratica. Scrive il magistrato: «Che Magistratura democratica sia stata (sia) la sinistra della magistratura è noto e da sempre rivendicato». Questo l'incipit che toglie ogni ambiguità e fraintendimento. Certo, questo non vuol dire che i magistrati siano pedine del sistema dei partiti, dal Pci e dai suoi eredi a Rifondazione, ma indica comunque una precisa collocazione. Ma Pepino va ben oltre, verso la militanza attiva: «La rottura con il passato è radicale e gravida di conseguenze: ad una magistratura longa manus del governo, si addice, infatti, un modello di giudice burocrate e neutrale, mentre ad una magistratura radicata nella società più che nell'istituzione deve corrispondere un giudice consapevole della propria autonomia, attento alle dinamiche sociali e di esse partecipe». Eccolo qui il magistrato che si afferma come contropotere: questo giudice fugge dal Palazzo, inteso come luogo di conservazione e di stagnazione, e si mette in testa al popolo, ne guida le battaglie, lo conduce verso la liberazione, come nel celebre dipinto di Pellizza da Volpedo Il Quarto Stato. Si dirà che si tratta di suggestioni ma non è non è così. E Pepino, in quel testo, lo spiega fin troppo bene: «Il dogma dell'apoliticità si rovescia nel suo contrario». La magistratura fa politica. Appunto. Md fa politica, da sinistra. Anche se fuori dal parlamento e senza tessere.

È tutto scritto e declamato nei sacri testi. Nei comizi. Nei convegni. Nelle controinaugurazioni dell'anno giudiziario. Nei pugni alzati, come al funerale di Ottorino Pesce, anima della sezione romana di Md, morto nel gennaio '70. È quasi cinquant'anni ormai che Md cerca la sua bussola nel grande arcipelago della sinistra. Talvolta soffrendo di collateralismo, talvolta cercando di dettare la linea al Pci-Pds e alle altre sigle della sinistra, oppure ancora spaccandosi al suo interno fra ortodossi e movimentisti e fra garantisti e giustizialisti. Se un giudice, per stare ancora a Pepino, fa a pezzi il modello basato sulla neutralità, sceglie «l'opzione di sinistra», testuale, «fa la sua scelta di campo», afferma il suo «sentirsi dalla parte dei soggetti sottoprotetti», fin dove si può spingere? Siamo su un piano inclinato su cui, sin dall'atto di fondazione del 27 luglio 1964, e poi attraverso la virata del 30 novembre 1969, si sono esercitate almeno due generazioni di toghe, con risultati che è difficile riassumere. Ma certo si tratta di alcuni dei nomi più noti della magistratura italiana: da Gian Carlo Caselli a Gerardo D'Ambrosio e a Gherardo Colombo, per rimanere fra Palermo e Milano, fra i processi alla cupola, ad Andreotti e a Dell'Utri e l'epopea di Mani pulite. E poi Livio Pepino, Vittorio Borraccetti, Elena Paciotti, Giuseppe Palombarini, autore del fondamentale Giudici a sinistra. Ma l'elenco è chilometrico. E molti i tornanti, le curve, le risse, le divisioni e le ricomposizioni, le diverse sottolineature.

Qualcuno, brutalmente, ritiene che la parabola di Md sia quella di un movimento che porta aria fresca nelle ovattate stanze degli ermellini, rompe tabù, distrugge un vecchio e logoro apparato di relazioni elitarie, poi piano piano, di emergenza in emergenza, fra il terrorismo e tangentopoli, si appiattisce sulle posizioni giustizialiste. Quelli di Md, con dietro tutti gli altri, un tempo ribattezzati per la loro furia culturale gli iconoclasti, diventano i picconatori della Prima repubblica e poi del berlusconismo consegnando i santuari del potere ai postcomunisti. E così la sinistra vince in Italia passando per la scorciatoia della via giudiziaria, ma dopo essere stata sconfitta proprio sul piano delle idee, delle ideologie e degli ideali naufragati fra le macerie del Muro di Berlino. È la storia drammatica che Francesco Misiani racconta nel suo bellissimo La toga rossa.

Una lunga cavalcata nelle contraddizioni dei magistrati rossi: dall'epoca dei processi popolari, cui il giovane e compiaciuto Misiani assiste in Cina, all'ubriacatura da manette ai tempi di Tangentopoli quando le tentazione di abbattere un sistema marcio entra a piedi uniti anche nelle aule di giustizia.
(1.continua)

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