Elogio della (buona) raccomandazione

Prendiamo Santoro, proprio lui, Michele Santoro. S’acquista una villa a Positano, vista mare e un po’ malandrina perché mezza abusiva. Fatto abbastanza consueto, sulla costa, tant’è che non solo l’ex proprietario, ma anche uno stuolo d’altri proprietari di ville parimenti fuori norma implorano da decenni la sanatoria per potersi mettere in regola. Però dal Comune non hanno ricevuto che ripetuti niet. Le concessioni edilizie sono quelle che sono e a chi sgarra peggio per lui. Ma ecco che per Santoro e solo per Santoro le cose cambiano da così a così: a lui la sanatoria il Comune gliela concede in quattro e quattr’otto. Sarà un caso? O Sarà che Santoro ha qualche santo in paradiso? Il buon senso ci induce a pensare che sia buona la seconda delle ipotesi: Santoro è un raccomandato.
Il verbo raccomandare suona buonista, suona veltroniano: significa affidare alla protezione o all’aiuto altrui. E ora scagli la prima pietra chi non ha mai raccomandato o mai s’è fatto raccomandare. È ovvio che non si raccomanda solo per far ottenere un lavoro, anche se quella è la raccomandazione principe. Ci si raccomanda e ripetutamente anche per le faccende minute, di tutti i giorni: «Vedi se puoi farmi avere l’appuntamento col pediatra per giovedì», «Cerca di farmi ottenere uno sconto», «Tu che conosci quella violinista, prova a vedere se mi dà due biglietti omaggio per il concerto». Tutto ciò (e molto, molto altro) rientra nel novero delle raccomandazioni, tutto ciò significa affidarsi all’aiuto altrui per ottenere un vantaggio.
Dal putiferio sollevato dall’indagine della procura sui «favori» in Campania, sembrerebbe quasi che la raccomandazione sia una pratica fresca di conio (e ignota alla sinistra, per colmo dei colmi). Inutile ricordare che non è così: tavolette sumere attestano infatti che la pratica era già attiva all’alba della civiltà: a un re, tale Ennatumm, veniva «indicato» (la raccomandazione ha qualche buon sinonimo: segnalazione, indicazione, interessamento...) come idoneo a certi lavori un artigiano di Unug. E qui parliamo del 2500 avanti il Cristo, mica del secolo scorso. C’è dunque da stupirsi, da indignarsi come acide zitelle vittoriane se vien fuori che in Campania qualcuno raccomandava qualcun altro? Come è possibile gridare allo scandalo per una pratica che ha accompagnato lo svilupparsi armonico della società?
Eppure, alla notizia dell’inchiesta schiere di Tartufi si sono messi di buzzo buono per condannare la raccomandazione denunciandola come un sopruso, come una tabe che mina l’organismo stesso dello Stato. Non dico che non ci possano essere casi di raccomandazioni malandrine (si racconta che Italo Balbo raccomandò - ad Alfredo Rocco, poi, il ministro della Giustizia - un lestofante in cambio dei dolci baci e delle languide carezze della moglie di costui) e anche di raccomandazioni estorte, ma per grandi numeri essa è virtuosa e incolpevole. La si potrebbe definire addirittura una sorta di ammortizzatore sociale se poi serve, come spesso accade, a favorire l’occupazione. E se è per questo, anche a dare vitalità alla meritocrazia, che è una bellissima cosa, ma per dimostrare di meritare e poi andare avanti con le proprie gambe il meritevole deve pur esser messo alla prova.

Se dunque qualcuno lo raccomanda lodandone i meriti, che male c’è? Ovvio che il discorso cambia se in cambio della raccomandazione si impone al raccomandato un pagamento in danaro, prestazioni o voti. Però non vorrei essere nei panni del giudice che deve trovare quel quid che possa distinguere la riconoscenza dalla estorsione. Se ce la fa, è un mago.

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