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Fini rivendica l'omicidio della destra

Fini rimprovera i suoi ex compagni di partito di voler ripetere una storia importante riducendola a farsa

Fini rivendica l'omicidio della destra

La destra ritorna a Fiuggi. Ed è l'assassino che torna sul luogo del delitto. Fratelli d'Italia, infatti, convoca il proprio congresso nella città delle acque. Giusto dove venne messo a morte il Movimento sociale italiano, il partito della nostalgia tricolore, per far nascere in suo luogo Alleanza nazionale. Fu, questa, la destra costituzionale di cui Gianfranco Fini, leader indiscusso del prima e del dopo, successore di se stesso, se ne sgravò appena possibile.
La nemesi della destra ebbe inizio a Fiuggi. Accadde come a volersi pulire una scarpa incrostata di cacca. Fini – spregiudicato e calcolatore – se ne liberò di quel mondo grattandosi la suola sul predellino offertogli da Silvio Berlusconi. Affidò a questi – la cui storia è forse popolare ma non patriottica né tradizionale – la possibilità di strozzare, al momento opportuno, qualunque possibilità di sopravvivenza della destra. Cosa puntualmente accaduta. Non esiste più una sigla credibile, un gruppo, un giornale, un mondo. Tutto è irrimediabilmente destrutto.

La destra va a Fiuggi e Fini, oggi, rivendica il delitto. Con una dichiarazione all'Huffington Post, l'ex presidente della Camera – ex terza gamba di quell'alleanza di centrodestra che lo vedeva alleato di Berlusconi assieme a Umberto Bossi – rosica e accusa. Rimprovera gli ex suoi di voler ripetere una storia importante riducendola a farsa. Con un gioco d'introspezione tutto particolare, perfino drammatico, Fini restituisce ad Alleanza nazionale un merito, quello di «aver lasciato la casa del padre per non farvi più ritorno» mentre nell'adunanza di Fratelli d'Italia – preannunciata da una domenica di primarie per la scelta del simbolo – ritrova, invece, il sapore di un reducismo macchiettistico. Come se questa dannazione non fosse già un'antica tara...
Fini, insomma, rivendica il delitto e rifiuta il castigo. Ma lo fa da sempre. Ora non gli va giù che alcuni suoi vecchi e più giovani complici – Ignazio La Russa, Giorgia Meloni e Gianni Alemanno – tornino sul luogo del misfatto (Fiuggi) per chiedere uno sconto di pena al vecchio elettorato in dismissione, a tutti quelli che non gli hanno perdonato l'espulsione del fascismo come un calcolo renale (cit. Marcello Veneziani) e che gli hanno preferito Silvio Berlusconi. Uno che una storia tutta sua, perfino nel distruggere la destra, nella sua voluttà titanica, l'ha mostrata.

Fini si lagna e ha torto, ma gli altri, fratelli e sorelline d'Italia, eccedono in scaltrezza: non basta riprendersi il padellone bianco azzurro, l'emblema di An, per svegliare la clientela. Anzi, attenzione: è probabile che lunedì arrivi una sentenza che impedisca agli entusiasti fratelli di potersene fregiare sulla scheda. Tutte le storie, quando transitano in zona farsa, finiscono in tribunale ma la destra, si sa, è più che destrutta. È stata prosciugata, appunto, da Berlusconi ma gli eredi di Fiuggi, orbi di Pinuccio Tatarella, l'unico vero artefice di una stagione alta della politica, a destra, non hanno mai dato prova di governo, di decisione, di strategia se pensano poi di risorgere chiamando al proprio fianco Giulio Terzi di Sant'Agata, che non è precisamente l'ambasciatore Filippo Anfuso, ma il ministro degli Esteri che suggeriva ai due Marò – l'orgoglio del nostro esercito – di venire meno alla parola data. La parola, ripeto: quella che distingue l'uomo da qualunque toro, individuabile solo dalle corna.
Fini è il titolare di un delitto il cui castigo, oggi, lo pagano gli italiani che non avranno mai più, a meno di accettare le caricature, una destra degna di una tradizione che pure è stata viva in Italia. Quando si dice destra, infatti, le mura dell'edificio più solido risuonano di tanti nomi nobili dei quali è opportuno sceglierne adesso uno, quello di Indro Montanelli, la cui lezione di libertà e di stile s'impose nella viva carne degli italiani di destra costringendoli ad attraversare, senza precipitare nell'obbedienza alle convenienze elettorali, l'aspra terra dell'eresia e dell'anticonformismo che, nella storia dell'Italia repubblicana, sono stati blasoni di una destra indecifrabile per l'alfabeto della politica. Come quando Montanelli consumò la sua rottura con Berlusconi ma fu sempre così ribelle ed eretico da voler salutare – nello scatto di un colpo di tacchi – le bare di Giorgio Almirante e di Pino Romualdi.

Era a Roma e fu nel giorno in cui sembrava spegnersi per sempre, con la morte dei due leader, la fiamma tricolore. Se ne sentì parte di quella storia, anche solo in un istante. E la storia della destra – caro Direttore – fosse solo per un istante è appartenuta agli italiani. Fosse solo per imparare i colori della bandiera.

Ecco, Fini ha abitato una casa non sua. Ma i suoi, gli ex suoi, oggi tutti a Fiuggi, non hanno una faccia migliore della sua da mostrare in pubblico.

È soltanto - caro Direttore – una zuffa tra fantasmi che indossano la stessa coccarda, quella badogliana: Fini al dritto, con orgoglio antifascista; i suoi rivali al rovescio, credendo di camuffarsi un poco.

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