Politica

Il Grande centro e la giusta disfatta dei traditori

I leader di Udc e Fli trascinati nel disastro da Monti, che si era illuso di innovare con questi campioni della casta

Il Presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini
Il Presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini

Mentre mi accingo a scrivere il presente articolo, non vi sono ancora certezze, tranne una: Mario Monti, dopo aver fallito nella gestione del Paese, peggiorandone tutti - e sottolineo tutti - i parametri economici, ha fatto altrettanto come leader di partito. Il suo centro non ha sfondato, ma è stato affondato dagli avversari.

L'ex premier era salito in politica convinto di poter guardare i colleghi dall'alto in basso e, invece, alla prova delle urne è caduto a terra. Ora è titolare di un gruppetto di parlamentari che non inciderà nella storia della prossima legislatura. Il Professore, autore di una mediocre e contraddittoria campagna elettorale, ha trascinato con sé nel disastro i suoi due mentori (Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini), con i quali si era illuso di costruire una forza nuova in grado di aggregare milioni di persone, sedotte dal fascino del cattedratico. Un'ingenuità che ha pagato a caro prezzo: come si può pensare di cambiare i connotati della Casta affidando il compito di farlo a due esponenti della medesima? Due signori inchiodati alla poltrona da trent'anni e che hanno sfruttato qualsiasi privilegio graziosamente offerto a chiunque sia entrato nel Palazzo.

Il centro, secondo i sogni di Monti, avrebbe dovuto costituire un'attraente alternativa al Pdl. Un progetto irrealizzabile se si tiene conto che Silvio Berlusconi, per quanto acciaccato, rimane pur sempre l'uomo da battere. Averne sottovalutato la bravura di acchiappavoti è stato un atto di superbia e di supponenza imperdonabile. Il bocconiano, considerata la sua inesperienza nel ruolo di tribuno, va compreso: gli applausi e le lodi dei media probabilmente gli hanno fatto perdere la lucidità necessaria per non imbarcarsi in un'impresa disperata. Ma i suoi compari, Fini e Casini, che lo hanno spinto a giocare una partita persa in partenza, non si possono giustificare.

Il primo, se non altro, aveva al suo arco poche frecce (o nessuna) per tentare di correre in solitudine, cioè con la propria creatura fragile, il Fli. E questo suppongo lo abbia indotto ad aggrapparsi a Monti: o mi salvo con lui o muoio. Ma Casini ha commesso una sciocchezza indegna di un politico di lungo corso: aveva un partitino uscito indenne da mille battaglie, una piccola barca collaudata e robusta che ha abbandonato per salire su una nave inesistente, o esistente soltanto nella propria fantasia, ovvero quella di cartone varata dal docente con la presunzione di poter affrontare la burrasca elettorale.

Anche mettendoci tutta le buona volontà, risulta incomprensibile la scelta scriteriata dell'ultimo democristiano autentico espresso dalla politica italiana. Il quale, essendo capolista per il Senato in varie regioni, non rischia l'esclusione dal Parlamento, ma di sicuro sarà emarginato in una posizione di seconda fila. Gli rimarrà giusto l'indennità. Addio partito. Addio comparsate quotidiane in tivù. Tornerà ad essere il peone che fu all'inizio della carriera, giunta al massimo livello grazie - ovviamente - all'odiato Berlusconi.
Fini, piuttosto, è in bilico. Non ha voti, non ha seguito, ha dissipato un patrimonio di autorevolezza e il suo destino è legato ai decimali di Monti per essere confermato almeno deputato. Un epilogo inglorioso sia per Pier Ferdinando sia per Gianfranco.

Inglorioso e meritato.

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