Grasso, il damerino che vince senza combattere le battaglie

Da giovane calciatore non amava sporcarsi. In magistratura ha collezionato successi ma non ha mai preso posizioni chiare, come su Ingroia o sul Cav. E ora gioca per il Pd

Pietro Grasso, già procuratore nazionale antimafia
Pietro Grasso, già procuratore nazionale antimafia

Fatti i suoi conti, Pietro Grasso ha preferito lasciare la magistratura per la politica. Spera così di cavarsi ancora qualche soddisfazione che non aveva più ragione di aspettarsi nel mondo giudiziario bazzicato per quarantatrè anni.

È probabile che prima del salto della quaglia nel Pd sia stato nelle ambasce e abbia così ragionato. A ottobre 2013 mi scade il secondo e ultimo mandato di procuratore nazionale antimafia, carica che ricopro dal 2005. Ho sessantotto anni e potrei ancora indossare la toga per un po'. Ma dove lo trovo un posto di eguale prestigio? Per mantenere il livello dovrei diventare procuratore generale della Cassazione. Però è impossibile perché, in Cassazione, devo per forza cominciare da sostituto procuratore -che è come tornare capitano dopo essere stato ammiraglio - per poi sperare in una promozione lampo. Ma con tanti già in fila, vattelappesca. D'altronde, se pure volessi un ripiego attraente, tipo una grande procura - a parte che ho già guidato quella di Palermo dal 1999 al 2004 -, non c'è un dannato posto libero nei grossi centri, Roma, Milano o simili.

«Drinn... drinn...». Fu proprio il suono del cellulare, festoso come uno scampanio natalizio, ad annunciargli lo scorso dicembre che i suoi rovelli esistenziali stavano finendo. Era Pier Luigi Bersani che gli offriva la candidatura di capolista per il Lazio. Detto fatto e il dottor Grasso è passato, sempre a nostre spese, dallo stipendio all'indennità. A seggio assicurato, sospirò commosso: «Decisione sofferta». Come fosse stato un sacrificio.

Resta da capire perché abbia scelto il Pd. La domanda è d'uopo poiché Grasso era superprocuratore grazie al Pdl che fece carte false per dargli il posto. In lizza, nel 2005, - col Cav a Palazzo Chigi - c'erano Grasso e Gian Carlo Caselli, già suo predecessore alla Procura di Palermo (1993-1999). Caselli era favorito ma, essendo notoriamente comunista, dava l'orticaria a destra. Fu così che Luigi Bobbio, magistrato e deputato di An, si inventò una leggina che escludeva Gian Carlo per ragioni di età e consegnava la superprocura al più giovane Pietro. A cose fatte, la Consulta dichiarò incostituzionale l'inghippo di Bobbio. Sapete come accolse la notizia l'ormai superprocuratore Grasso? «Sono contento. Era una legge che non ho condiviso». Non la condivideva ma ne aveva approfittato, zitto finché poteva costargli il posto, ciarliero quando non rischiava nulla. Questo è Pietro: dire e non dire, dire tutto e il suo contrario, predicare bene e razzolare male.

Spiego meglio tornando alla domanda: perché nel Pd? Avvisaglie del suo ingresso in politica e dell'inclinazione a sinistra c'erano state già nel corso dell'anno. Sullo sfondo il sostituto palermitano, Tonino Ingroia, un arruffapopolo in toga. I due mal si sopportano dai tempi in cui Grasso era procuratore a Palermo. Ingroia, infatti, - sfegatato caselliano, ossia fan del precedente capo - lo contestava. Da allora, si pizzicano. A maggio 2012, fu Pietro a prendere di mira l'altro in un'intervista radio. «Ingroia - disse, criticando la sua partecipazione a un congresso di Pdci - fa politica utilizzando la sua funzione, è sbagliato. Scelga. Per me, è tagliatissimo per la politica». Pareva il predicozzo di un cavalier bianco della magistratura specchiata al discolo che la stava inquinando. Aggiunse, additandosi ad esempio: «Un magistrato non deve far conoscere le sue preferenze politiche. Quando mia moglie mi ha chiesto per chi avessi votato, le ho risposto: non te lo dico. Si è pure arrabbiata». Dopo il rabbuffo al collega, l'inappuntabile Grasso trascorse però l'estate a fare le stesse cose che gli rimproverava: feste del Pd su e giù per l'Italia, tra salsicce e Bella ciao. Morale: se a farlo è Ingroia, sbaglia; se lo fa lui, non è peccato.

Sentite quest'altra. Nel 2010, era a Firenze tra i parenti delle vittime per l'anniversario della strage di Via Georgofili del 1994. Prese la parola e, a freddo, disse che con le bombe «la mafia intese agevolare l'avvento di nuove realtà politiche che potessero esaudire le loro richieste». Non fece nomi, preferendo alludere, ma tutti pensarono a Berlusconi e Forza Italia («le nuove realtà politiche» del '94). L'uno e l'altra pedine delle coppole. Esattamente quanto afferma fuori dai denti quel brutalone di Ingroia e che gli è costata la class action del Giornale. Grasso - ormai lo conosciamo - giurò di essere stato frainteso e al sottoscritto spiegò che, avendo di fronte congiunti addolorati, doveva un po' drammatizzare. «Non era una riunione della Crusca» - ossia non era il caso di andare per il sottile- si giustificò testuale. Come dire che aveva parlato a vanvera. Tanto che, due anni dopo (2012), il Cav da mafioso diventa eroe antimafia. «Gli darei un premio speciale per la lotta alla mafia. Ha introdotto leggi che ci hanno consentito di sequestrare beni per quaranta miliardi», proclamò. Un colpo al cerchio, uno alla botte. È il modo che ha di attraversare la vita.

Nato a Licata ma palermitano di adozione, Grasso stava per diventare calciatore. Era centrocampista nel Bacigalupo. «Bravo. Giocava tecnicamente bene», ha detto Marcello Dell'Utri, futuro allenatore della squadra, aggiungendo: «Non gli piaceva sporcarsi di fango. Era sempre pulito e pettinato». Un signorino, dunque. Come tale, rinunciò presto a calciare il pallone per prendere a pedate il prossimo come magistrato. Lo fece, però, con parsimonia ed equilibrio. Debuttò a 24 anni, nel 1969, come pretore a Barrafranca. Poi andò in procura a Palermo ed ebbe una brutta esperienza. Poiché tutti i sostituti, Pietro compreso, non vollero sottoscrivere decine di ordini di cattura contro un clan, sostenendo che ne mancavano i presupposti, il procuratore capo, Gaetano Costa, li firmò da solo. Tre mesi dopo, la mafia lo uccise. A incoraggiarla, osservò Leonardo Sciascia, fu la solitudine in cui Costa era stato lasciato dai suoi. Grasso ha riconosciuto che il rifiuto fu un errore.

Dopo una carriera, prudente e cadenzata, la fama è arrivata con la guida della Procura di Palermo (è stato lui a mettere i primi tasselli - ma fu davvero un merito? - per spedire in carcere Totò Cuffaro) e della superprocura (arrestò Provenzano). Negli ultimi mesi di questo incarico, ha deluso il Colle sulle intercettazioni a Napolitano. Gli era stato chiesto di intervenire sulla Procura di Palermo per stoppare lo scandalo. Ma Grasso, per quieto vivere, ha fatto orecchio da mercante. Non so se questa defezione inciderà sulla sua candidatura a Guardasigilli che il capo dello Stato dovrà vagliare.

So invece che dopo la sentenza della Consulta che ha dato straragione a Napolitano, Pietro ha esultato: «È stata fatta chiarezza!». Aveva il tono di chi ha vinto una battaglia personale. Proprio quella che ha invece rifiutato di combattere.

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