RomaIl salame e la pancetta made in Italy sbarcano negli States. E lo fanno all'insegna di un particolarissimo federalismo da tagliare a fette. Da ieri, infatti, anche i salumi italiani a bassa stagionatura, quelli cioè con meno di 14 mesi di «riposo» potranno essere esportati negli Stati Uniti. Ma soltanto quelli provenienti da Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte e dalle province autonome di Trento e Bolzano hanno avuto il timbro sul passaporto per l'America. Queste regioni, contrariamente alle altre del Centro e del Sud, sono state infatti riconosciute come indenni dalla malattia vescicolare del suino, che ha costituito negli ultimi anni una «barriera non tariffaria» e ha bloccato l'export negli Stati Uniti fino a oggi di alcuni dei nostri più rinomati prodotti. Attenzione, però: a causa della vicinanza di queste regioni ad altre non riconosciute indenni, le autorità americane hanno preteso che i salumi destinati all'export negli Usa vengano prodotti solo in stabilimenti espressamente autorizzati dalle autorità statunitensi, accompagnati da apposito certificato sanitario e scortati da un'ulteriore attestazione veterinaria con la quale si garantisca che nell'impianto in cui gli animali sono stati macellati non siano stati introdotti carni o animali provenienti da Regioni non indenni da Mvs.
Complicazioni che non tolgono il sorriso ai produttori di pancette, coppe, salami, culatelli e prosciutti delle cinque regioni per il buon esito di una trattativa durata quindici anni e condotta dalla Assica, l'associazione confindustriale delle carni e dei salumi, e dall'Aphis, l'ufficio del Dipartimento dell'Agricoltura Usa. Perché la novità potrebbe valere una dozzina di milioni di euro. Secondo le elaborazioni fatte dalla Assica l'export dei salumi italiani, molto amati dai gourmet americani, potrebbe passare dai 68 milioni di euro l'anno (5890 tonnellate in termini di quantità) di oggi fino agli 80 milioni del 2014, con un aumento percentuale superiore al 17 per cento. E chissà che non si possa fare anche di più e di meglio, visto il boom del made in Italy agroalimentare negli Usa (+11 per cento nel 2012).
Insomma, il via libera (anche se parziale) alle esportazioni negli Usa è una vera mano santa per la filiera zootecnica, che vive un momento di forte sofferenza. Le 26.197 aziende suinicole italiane stanno scontando un forte calo della domanda interna (-7,3 per cento in quantità -3,3 per cento in valore). Vanno molto meglio le esportazioni, ma le barriere non tariffarie costano alla filiera suinicola, secondo le eleborazioni dell'Assica almeno 250 milioni l'anno di euro di mancato export. La completa liberalizzazione garantirebbe infatti il primo anno circa 200 milioni di euro di maggior export di carni e altri prodotti freschi e 50 milioni di euro di salumi e una crescita esponenziale negli anni seguenti.
Perdite che si sommano a quelle provocate dalle frodi e dall'italian sounding, quel fenomeno per cui in tutto il mondo proliferano prodotti che «suonano» come italiani ma non lo sono. Soltanto negli States il 70 per cento dei nostri prodotti alimentari è imitato, dalla finta soppressata lucana al culatello made in Uruguay.
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