Umberto Bossi, ex padrone della Lega, ha 72 anni, ne dimostra 100, ma si comporta come se ne avesse 40. È invecchiata la carrozzeria, piena zeppa di ammaccature tanto da sembrare pronta per la rottamazione (se la adocchia Matteo Renzi, chiama subito lo sfasciacarrozze), però il motore è ancora buono. Romba che è un piacere sentirlo. Quindi aspettiamoci di rivederla presto sfrecciare lungo le strade tortuose della politica. Il re dei padani non si è arreso e medita vendetta, tremenda vendetta.
Ieri La Repubblica ha pubblicato con evidenza una lunga intervista all'ex leader del Carroccio, in cui si sono lette affermazioni interessanti più dal punto di vista umano (...)
(...) che politico. Il cosiddetto Senatùr rivela una forte vitalità. Mostra di non essere rassegnato al ruolo di pensionato. Spera di tornare alla ribalta: gli auguriamo di farcela. Ci dispiace saperlo confinato nella sua residenza modesta di Gemonio, condannato ad assistere da lontano al declino della Lega, la sua creatura, cui ha dato più di quanto le abbia preso, nonostante qualcuno, fuorviato dalle note vicende familiari del boss, sostenga il contrario.
Tuttavia un conto sono le intenzioni, il desiderio di rivalsa su chi lo ha spodestato, e un conto è rovesciare la situazione determinatasi dopo il famoso scandalo dei ladri di galline e sfociato in un inevitabile ribaltone nel partito: fuori il vecchio, dentro il nuovo. Un controribaltone guidato dall'anziano ex capataz, per giunta malato, dall'eloquio stentato e dalla deambulazione compromessa, è altamente improbabile. In ogni caso, Bossi annuncia di volere partire alla riscossa: tra pochi giorni, come un grido di guerra, uscirà un giornale che sarà brandito quale spada per intimidire quelli che Umberto definisce traditori del verbo nordista, incluso Roberto Maroni.
Dal giorno maledetto in cui, a Bergamo, si celebrò con stile burino la cerimonia della «pulizia del pollaio», che sancì il passaggio delle consegne tra Bossi e il suo delfino Maroni, molta acqua è scorsa sotto i ponti. Alberto da Giussano si è un po' imborghesito, la Lega ha ammorbidito i toni, il sogno indipendentista è sfumato, il federalismo - che era stato per oltre un decennio il Sol dell'avvenire per le camicie verdi - è tramontato. E i voti? Occorre ammetterlo: si sono dimezzati. Colpa del mio successore, dice Bossi. Ma non è così. Maroni ha ricevuto in eredità una ciofeca, un partito in stato prefallimentare. Egli ha cercato di salvare il salvabile e ci è riuscito, vincendo addirittura le elezioni regionali in Lombardia e conquistando la maggioranza. Il massimo raggiungibile.
Bisogna considerare che la crisi politica italiana non ha risparmiato nessuno. Il Pdl è andato giù, poi Silvio Berlusconi ha limitato i danni spendendosi fino all'ultima stilla di sudore. Il Pd, convinto di salire al cielo, non è neppure decollato. Solamente Beppe Grillo ha pascolato voracemente sui terreni ubertosi della protesta, riempiendo la pancia del Movimento 5 Stelle di consensi umorali. Antonio Di Pietro e la sua Italia dei dolori sono morti suicidi. Il Sel di Nichi Vendola è sopravvissuto a stento. La politica in pochi mesi è diventata una specie di campo profughi nel quale alcuni partiti hanno trovato sepoltura.
La Lega, a onta del trattamento subìto dalla magistratura e dai media, è ancora in piedi. Traballa ma non cade. E pensare che di botte ne ha prese. Le porcate del tesoriere Belsito spacciate per rapine a mano armata. Le spavalderie del Trota dipinte quali grassazioni. Il cerchio magico demonizzato. E Bossi? Capro espiatorio, costretto a fare pubblica ammenda, a nascondersi in un angolo: mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. Ai concorrenti del Carroccio non pareva vero di poterlo bersagliare; essi non immaginavano neanche lontanamente che i nordisti prestassero il fianco a critiche feroci sul piano della moralità. E ne approfittarono per organizzare il tiro al piccione: Bossi. Il quale è stato lordato dai peggiori insulti: sei un familista, un profittatore, un dittatorello che ha dilapidato una fortuna in diamanti, titoli africani, mancette ai figli storditi dal successo paterno. Esagerazioni, se non balle.
Lui, il senatore travolto da luridi eventi, non seppe reagire e si piegò alla volontà vendicativa di chi nella circostanza pretendeva di sacrificarlo per consentire alla Lega di ripulirsi e seguitare nel cammino nordista. È la regola: fanne secco uno per educarne mille. A Bergamo ero presente quando il leader menomato e intontito salì sul palco e lacrimando consegnò lo scettro a Maroni. Non aveva alternative. In quel contesto i militanti reclamavano la testa del reo. In un clima da tregenda, Umberto recitò senza convinzione la parte della vittima sacrificale. Si consegnò riluttante al pubblico ludibrio. Scene imbarazzanti. Ma non c'era altro da fare che stare al gioco perverso sollecitato dal popolo: allontanare il peccatore per redimerci tutti.
Nulla di inedito. Una brutta storia. In Italia ci sono partiti nella cui ragione sociale c'è il furto, la scalata al potere con ogni mezzo (anche e soprattutto illecito), l'occupazione indebita di posti, la dissipazione di capitali statali: la fanno sempre franca. Resistono alle inchieste della magistratura. Puntano sulla prescrizione e la ottengono. La Lega ha rubato qualche briciola e si è sbriciolata. I giornali l'hanno strapazzata con somma soddisfazione. Di più: con godimento.
L'estromissione di Bossi dal Palazzo ha provocato autentici orgasmi in parecchi terroni che identificavano in lui un pericolo. Ma in tutto questo che c'entra Maroni? Lo domando a Umberto. Maroni si è addossato un compito ingrato: evitare il disastro. Si è impegnato allo spasimo. Ha tenuto in piedi la baracca. Il suo linguaggio non sarà suggestivo, non infiammerà le folle. Egli non avrà il piglio del trascinatore, non sarà un visionario capace di prevedere il futuro. Forse non riuscirà neppure a rinverdire i fasti della Lega che fu. Ma non ha deposto le armi ed è lì al Pirellone con le maniche rimboccate a sbattersi dalla mattina alla sera.
Caro Umberto, non è lui il nemico. Non è un traditore. Fa quello che può. Fin troppo. E tu non ti agitare. I bei tempi, quando andavi su e giù per le valli varesine e orobiche in cerca di suffragi difficili da strappare, sono lontani. Eri giovane e sano e ce l'hai fatta a fondare un partito nordista. L'hai lanciato e sei stato decisivo nel farlo diventare un interlocutore imprescindibile. Hai pagato cari i tuoi errori.
Non meritavi di pigliarti un calcio nel sedere. Ma il mondo è mutato e non in meglio. Temo che rifiuterebbe un tuo risveglio politico. Lascia a Maroni ciò che ora è di Maroni. Non insistere. Tieniti i ricordi belli e guarda con distacco la brutta realtà che ci circonda. Sei stato un gigante, non rischiare di rimpicciolirti. Un mito, per rimanere tale, deve evitare di retrocedere in serie B. Vale nel calcio come nella politica. Meglio un grande spettatore che un attore mediocre e di risulta. Ciao.
segue a pagina 9
Della Frattina a pagina 9
di Vittorio Feltri
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