Ingroia ridotto come Fini: "Csm che fai, mi cacci?"

L'ex pm in una lettera accusa l'organo di autogoverno della magistratura: "Ero una vittima sacrificale"

Ingroia ridotto come Fini: "Csm che fai, mi cacci?"

Roma - Non ho lasciato la magistratura, mi avete cacciato. È il senso del pesante j'accuse che Antonio Ingroia indirizza al Csm, descrivendosi come una vittima sacrificale, «un ghiotto bersaglio per detrattori non solo della mia persona, ma anche delle azioni - alcune ancora in corso - del mio precedente ufficio, la Procura di Palermo. Caricato anche del fardello di una colpa collettiva».

Nella lettera che l'ex pm invia a Palazzo dei Marescialli, dopo aver lasciato la toga contestando la nuova sede assegnatagli ad Aosta, c'è qualcosa che ricorda l'ormai celebre e provocatorio «Che fai, mi cacci?» di Fini a Berlusconi.

Mi avete «senza troppi riguardi spinto fuori dalla porta», scrive Ingroia, mettendomi nella «impossibilità di riprendere servizio», perché ogni mia scelta era «fonte di denigrazione, screditamento, delegittimazione della mia storia professionale». E questo, con «l'accusa ricorrente», non solo da parte di politici o giornalisti ma anche di colleghi magistrati, «che la mia persona poneva a repentaglio (perché? in che modo? da quando?) il prestigio della magistratura italiana».

Dopo il flop alle ultime elezioni con la sua Rivoluzione civile, l'ex pm che continua a fare il leader del movimento ribattezzato «Azione civile» e lo ha fatto anche quando vestiva la toga, si preoccupa di ripulire la sua immagine dagli abbondanti schizzi di fango, per acquistare consensi sulla scena politica.

Ora che il governatore Rosario Crocetta gli ha trovato un posto dorato nella società di informatizzazione siciliana, si accorge che per le sue ambizioni l'isola gli sta stretta. E cerca la ribalta nazionale.

Così, racconta a modo suo quel che è successo, attaccando il Csm che al rientro in magistratura gli ha attribuito «una sede che, per le sue caratteristiche geografiche e ambientali, è stata unanimemente avvertita come punitiva e diminutiva della mia condizione professionale da parte dell'opinione pubblica». Per quale colpa? Solo per, risponde Ingroia, la «legittima partecipazione (con non pochi altri magistrati) alle elezioni». L'ex pm sostiene di non essersi presentato ad Aosta, dopo «travagliata e scrupolosa riflessione»: non si è dimesso, si è fatto decadere dalla funzione, il che ha un significato preciso. «Ho avvertito - dice - la dolorosa certezza che il potere dello Stato di cui mi vantavo di far parte, forniva un inequivocabile segnale di sfiducia nei miei confronti».

Parla del suo «amore per la magistratura», dei suoi «eroici maestri» citando Paolo Borsellino, dell'«entusiasmo» e della «dedizione» dimostrati e respinge «il sospetto che questo impegno fosse strumentale a vantaggi personali o nascondesse intenti persecutori».

Dice di essere stato schiacciato da una «crescente insofferenza» per la sua attività giudiziaria» e per le manifestazioni «della libertà di espressione pubblica» del suo pensiero, fino a subire una «corale critica» anche da chi l'aveva stimato. E conclude, con la «delusione di aver lasciato un'opera incompiuta».

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