L’azienda che deve chiudere per antimafia

L’azienda che deve chiudere per antimafia

Reggio CalabriaAmico dei mafiosi? Solo un errore di trascrizione. Intanto, però, la sua impresa ha perso clienti e commesse e licenziato i dipendenti. Ed ora potrebbe cambiar sede. E trasferirsi in Africa.
Chiuso per antimafia: per una frequentazione mai intrattenuta, Carmelo Melara ha perduto la pace e, per qualche mese, anche l’onore. «Guardi, cosa vuole che le dica. Anche adesso che ho vinto, non riesco a essere contento». Risponde dalla sua Palmi, in provincia di Reggio Calabria. E il suo legale, l'ex sottosegretario Armando Veneto, non si sottrae al racconto. «Perché questa storia -spiega- è la dimostrazione di come l'antimafia sia una cosa diversa da quella solo sbandierata».
La storia comincia il marzo del 2011: Melara, amministratore unico della Melfer srl, si vede notificare una misura interdittiva. La Prefettura vieta alla sua società di tenere rapporti imprenditoriali con la pubblica amministrazione. Una botta tremenda, per una ditta che col settore pubblico lavora, fornendo calcestruzzo e strutture in ferro al consorzio che nel reggino è impegnato nell'ammodernamento della Salerno-Reggio. Nel giro di poche ore, i contratti in essere vengono rescissi. Altre somme, dovute per i lavori fino a quel momento eseguiti, vengono trattenute. Tutto in ossequio al protocollo antimafia. Che come ghigliottina cala sulla società palmese per un'informativa del locale Commissariato di Polizia. Quella nella quale si attestano le relazioni pericolose di Melara. Che un giorno viene notato in compagnia di persona ritenuta vicina alle cosche, e un altro insieme ad altri due presunti elementi della 'ndrangheta.
Peccato, però, che così non fosse. «L'incontro con persona vicina alle cosche deve ritenersi frutto di un errore di trascrizione. Le altre due persone, invece, erano state incontrate quattro anni prima di essere raggiunte da ordinanza di custodia cautelare». Lo scrivono dal Commissariato già sul finire di maggio, in risposta al difensore dell'imprenditore calabrese, mentre già la macchina divoratrice della burocrazia s'è messa in moto. Inesorabilmente. E per fermarla non è sufficiente che a luglio il Tar censuri la famigerata informativa e sospenda gli effetti dell'interdizione. Nulla cambia. La situazione, anzi, peggiora. Perché il blocco delle commesse porta il fatturato a scendere da 5 milioni a 500.000 euro.
E così alla Melfer, nel disperato tentativo di sopravvivere, non resta che cedere rami d'azienda al miglior offerente e licenziare i propri dipendenti. In tanti vengono mandati a casa, in una terra che di lavoro ha fame come il pane. Tutti risucchiati nel buco nero dei paradossi, in cui si perdono anche la logica e il buon senso: sebbene il Tribunale amministrativo già il 21 luglio chiarisca i contorni della vicenda, sarà necessario attendere novembre perché la Prefettura revochi la misura interdittiva. E lo stesso Tar chiuderà la partita solo l’8 di marzo del 2012, entrando nel merito.
La sentenza che restituisce dignità a Carmelo Melara stabilisce adesso che «la società consortile Sa-Rc è tenuta a riattivare i rapporti contrattuali già in corso al tempo della comunicazione dell'informativa prefettizia e a porre in essere le azioni necessarie per garantire alla ricorrente la restituzione della penale del 10% del valore dei contratti, trattenuta in applicazione del protocollo d'intesa antimafia».
Ma non basta. «Non può bastare -sottolinea l'avvocato Veneto-. Quasi come fosse una caccia alle streghe, abbiamo assistito allo smantellamento di un'azienda. Società consortile e ministero dell'interno saranno chiamati a risponderne».


Ma per Carmelo Melara sembra quasi un dettaglio: dalla Calabria che lo ha stritolato andrà via. Vuole delocalizzare le sue attività. Forse, ricomincerà dall'Africa. A quanto pare, nella savana e tra i deserti la burocrazia non attecchisce.

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