L’inventore di Forza Italia amante del calcio e dei libri

Nel 1961 da Palermo Dell’Utri approda a Milano, dove nasce l’amicizia con Berlusconi Trasformò Publitalia nel partito che sconfisse la sinistra. E da allora è nel mirino dei pm

L’inventore di Forza Italia amante del calcio e dei libri

Palermo è il suo peccato originale e lui sarebbe il peccato originale di Silvio Berlusconi. In un’Italia che fa fatica a spiegare la ricchezza e il successo, legioni di giornalisti, magistrati e dietrologi si sono spaccati la testa per trovare nei cassetti di Marcello Dell’Utri la chiave d’accesso del Cavaliere al denaro e al potere. Risultato: un altro processo. E così si torna in Sicilia, a Palermo, dove Dell’Utri nasce l’11 settembre ’41. E Palermo, naturalmente, è la porta a Cosa nostra che sempre viene infilata nella biografia del senatore. Anche Dell’Utri, come il suo amico Berlusconi, è molte cose insieme: è un politico, è soprattutto un formidabile organizzatore, è l’uomo che dirige come un’orchestra quella formidabile macchina raccogli pubblicità che è Publitalia ’80 ed lo stratega che nel 1993 crea dal niente quell’altra macchina elettorale che si chiama Forza Italia. Insomma, il senatore è il motore dei due grandi miracoli berlusconiani: l’ascesa della tv commerciale, pionieristica nell’Italia degli anni Ottanta, e il suo ingresso, sorprendente e imparabile, nella politica italiana dove la sinistra si apprestava a entrare nella stanza dei bottoni. Ma Dell’Utri è, o sarebbe, anche l’ombra inconfessabile del suo amico.

È vent’anni, un tempo sfinente per chiunque, che si discute il tema e si citano sempre gli stessi episodi. La storia personale s’intreccia con quella di Silvio e poi rimbalza a Palermo, sempre alla ricerca del peccato originale, evocato un’infinità di volte e mai dimostrato. Dell’Utri studia al liceo Gonzaga, quello dei gesuiti e della buona borghesia, e subito i suoi avversari mettono in evidenza la circostanza sospetta: al Gonzaga va anche Stefano Bontade, boss di prima grandezza anche se appartenete all’ala di Cosa nostra spazzata via dai corleonesi. Nel ’61 il giovane Marcello approda a Milano e conosce Silvio Berlusconi. L’incontro avviene nei corridoi della Statale dove tutti e due frequentano Giurisprudenza. Nel 1964 Marcello è già segretario di Silvio: comincia un sodalizio che durerà tutta la vita. Poi rientra a Palermo e diventa direttore sportivo del Bacigalupo: una disgrazia perché a bordo campo ci sono personaggi come Vittorio Mangano, Paolo Alamia, Gaetano Cinà. La passione per il football è l’occasione, secondo la procura di Palermo che su Dell’Utri scava in tutti i modi dal lontano 1994, per cementare rapporti che verranno travasati nell’ambiente di Arcore. Negli anni Settanta Dell’Utri è di nuovo a Milano e di nuovo con Silvio. Ma quel retroterra, secondo i pm di Palermo, non lo abbandonerà. Marcello, il presunto Marcello delle trame sotterranee, sarebbe seduto a tavola alle Colline Pistoiesi al compleanno di un boss di prima grandezza come il catanese Antonino Calderone. Ed è sempre lui l’artefice dell’assunzione di Vittorio Mangano nella villa di Silvio. Ufficialmente come stalliere ma per i pm di Palermo, e di mezza Italia, il suo compito è molto più delicato: garantire la pace in un momento difficile. Berlusconi ha già subito attentati e rischia, come tutti i grandi imprenditori, un rapimento. Mangano sarebbe una polizza sulla vita. Nel 1980 la Criminalpol intercetta una telefonata fra i due: «Per il cavallo - spiega Marcello - servono i piccioli». «Chiedili al tuo principale», dice in sostanza Mangano. «Quello - è la replica oggetto di infinite interpretazioni - non è uno che sura». Ovvero, sgancia. Si tratta di destrieri o, come pensano gli investigatori, si allude ad una partita di droga?

Nel 1977 Dell’Utri è protagonista di un altro capitolo che presta il fianco a letture tenebrose: lascia Silvio e va a lavorare per il finanziere Filippo Alberto Rapisarda, un signore dal curriculum non proprio limpido. È una parentesi che si chiude con il ritorno ad Arcore nei primi anni Ottanta, ma sufficiente per alimentare i soliti sospetti: Dell’Utri sarebbe il vettore di ingenti capitali sporchi, che chiarirebbero il rigoglioso sviluppo della Fininvest. Marcello diventa il custode delle chiavi di Publitalia ’80, la cassaforte dell’impero. Poi nel ’93 tiene botta alla pazzia dell’amico, non a caso innamorato dell’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, e riconverte in poche settimane i cervelli di Publitalia dirottandoli su un’impresa impossibile: un nuovo partito pensato come argine per fermare lo strapotere della sinistra che si appresta a occupare l’Italia con la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto. L’impresa, disperata, riesce. E ancora una volta viene soppesata con gli occhiali tridimensionali. C’è lo zampino di Cosa nostra nei milioni di voti pescati da Forza Italia? Nel ’94 dell’Utri è ufficialmente sotto inchiesta: si scrutano i suoi rapporti con i mafiosi, torna in auge quella telefonata captata dalla Criminalpol, si smontano come giocattoli la Fininvest e Publitalia per cercare l’odore mafioso dei soldi. Intanto dell’Utri è deputato, europarlamentare, senatore. E imputato: anzi, imputato a tempo pieno. L’ombra si stacca da Silvio, è più defilata per evitare il solito gioco al massacro. Ma la grande caccia prosegue implacabile fra archiviazioni, nuovi capi d’imputazione, accuse terrificanti - addirittura una compartecipazione alla stagione delle bombe mafiose - poi rientrate, processi su processi. Lui si distrae comprando libri preziosi e nel 2007 assicura addirittura di aver messo le mani sui leggendari diari del Duce. Le smentite superano le conferme. Dell’Utri torna a misurarsi con quel capo insidioso e nebbioso che è il concorso esterno in associazione mafiosa. In primo grado arriva una condanna che è peggio di una mazzata: 9 anni. In appello si scende a 7 e soprattutto si stabilisce un prima e un dopo all’italiana: c’è un Dell’Utri contiguo a Cosa nostra fino al 1992, e ce n’è un altro di cui non è dimostrata la vicinanza all’organizzazione dopo quella data. Un po’ come l’Andreotti spaccato in due dai giudici: mafioso fino al 1980, non mafioso, anzi nemico di Cosa nostra da lì in poi.

Lui, intanto, con un’uscita infelice ha definito Mangano, morto in cella dopo una lunga malattia, un eroe per aver resistito alle pressioni dei pm. Ora la sentenza ma non il verdetto. Resta il rebus: Dell’Utri si riprenderà la sua vita o l’ombra la coprirà?

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