Sulla collina che guarda a Trieste anche il vento, mai clemente da queste parti, sembra essersi preso una pausa. Invece no, il Tricolore a mezz’asta che svetta davanti all’Università avverte i passeggeri del bus di linea 51/. Qualcuno mette i guanti mentre si scende alla fermata Chiesa di via Gruden. La strada che porta alla foiba di Baso vizza è lastricata di penne nere e gonfaloni verdi, rossi e blu che il vento gonfia, quasi a voler mostrare tutte le loro luccicanti medaglie, come fossero appunte su un petto. Oggi è il giorno del dolore e dell’orgoglio. Ogni sasso sanguina, ognuno ha una storia. «Quando ero ragazzo c’era un muro di omertà, silenzi e complicità, di vergogna e di rimozione», ricorda il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani, made in Pordenone, tra i primi ad arrivare nello spiazzale. Poi tocca al vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, che su X scrive: «Siamo in raccoglimento di fronte a ogni foiba, alle croci di legno che punteggiano la terra rossa d’Istria a segnare i luoghi là dove si aprono le ferite del suolo che hanno inghiottito migliaia di sventurati, in quella che è una delle pagine più buie della storia del nostro Paese». Poco più in là ci sono Andrea Abodi (Sport e Giovani), Gennaro Sangiuliano (Cultura), Giuseppe Valditara (Istruzione e Merito), arrivano il sindaco di Trieste Roberto Di Piazza e il governatore leghista del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga, che tuona contro «chi ha qualcosa da nascondere come purtroppo qualcuno ha fatto per decenni». Siamo a 377 metri d’altitudine, a Nord-Est dell’altopiano del Carso. Cento anni fa si estraeva carbone. Poi arrivarono i partigiani comunisti jugoslavi scatenati dal boia Tito che volevano «liberare» quel pezzo di terra conteso. E a finire nel pozzo profondo 200 metri e largo circa 4, furono decine di migliaia di persone, militari e civili, colpevoli di essere italiani, non fascisti. Ma solo 20 anni fa è stata istituita la Giornata del Ricordo per commemorare le vittime delle foibe e l’esodo giuliano -dalmata, vittime di una «patria matrigna» che non ha saputo difendere chi voleva mettere radici ed «essere un albero che sa dove nasce e dove morirà», cantava Sergio Endrigo in 1947.
Le vittime venivano incatenate l’una all’altra con del fil di ferro, i titini sparavano ai primi una raffica di mitra, gli altri finivano infoibati vivi, condannati dall’odio comunista a un’agonia dolorosissima, con le carni squarciate. «C’è stata una foiba della memoria, un grande buco nero», sentenzia Sangiuliano, ricordando la prima volta di un premier a Basovizza e un’altra prima volta, quella di Francesco Cossiga, in ginocchio da capo dello Stato nel 1991: «Mi impedirono di venire prima», ricorda il presidente del Comitato per i martiri delle foibe e della Lega nazionale Paolo Sardos Albertini, citando il Picconatore. «Approfondire chi glielo impedì è un impegno verso i martiri delle foibe, i loro familiari e noi tutti», è l’impegno solenne assunto davanti a mezzo esecutivo e a sette corone di alloro incorniciate dal tricolore, mentre il coro degli Alpini accompagna la messa.
Quando la Meloni e Dipiazza evocano Tito, l’ex presidente jugoslavo a cui il centrodestra vorrebbe togliere l’onorificenza di cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito, scrosciano gli applausi più convinti che riscaldano il cuore e le mani. Persino quelle della premier, gelide nonostante un paio di guanti neri «scroccati» a qualche generosa collaboratrice. «Io la revocherei ma deciderà il Parlamento», fa sapere la Meloni.
La sinistra, sempre dalla parte sbagliata della Storia, che sia Basovizza o Gaza, non ne vuole sapere.
Nessuno a Basovizza, silenzio dai big sulle foibe, solo triti slogan sui social.
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