Uno è un giovanotto con la passione per gli attentati dinamitardi. L'altro è uno dei più celebri scrittori italiani, famoso sulla rive gauche della Senna quanto in patria, antica militanza progressista non abbandonata quando le royalties hanno iniziato a gonfiargli il conto in banca. Il primo si chiama Mattia Zanotti, è in galera da dicembre e il prossimo 14 maggio verrà processato in Corte d'assise per attentato con finalità di terrorismo, accusato dell'attacco al cantiere della Tav in Val Susa il 13 maggio scorso. L'altro si chiama Stefano Benni, l'autore di Bar Sport e di cento altri romanzi di successo. Non si sono mai incontrati. Ma ieri il romanziere radical ha preso carta e penna e ha scritto al presunto terrorista, per dirgli che è di gente come lui che il Paese ha bisogno. D'altronde anch'io, rivela Benni nel passo più surreale della lettera, ho un trascorso da carcerato: e racconta di avere passato qualche giorno (durante la leva, si immagina) in una prigione militare. «Non ho nessuna lezione da darti, se non questa: quando ero chiuso in caserma (ma non era un carcere? ndr), leggevo, parlavo con i miei compagni, scrivevo. Tutto, pur di non sprecare il mio tempo, pur di non darla vinta a chi mi aveva privato della libertà. E ci sono riuscito».
A rendere quasi perdonabile l'accorata missiva dell'anziano intellettuale al militante irriducibile c'è un dettaglio: a chiederla è stata la mamma di Zanotti, che - con italico cuore di genitrice - ha segnalato al poeta il dramma del figliolo. E Benni non si è fatto pregare. Non si sa se prima di mettere mano alla lettera si sia documentato almeno un po' sull'inchiesta a carico di Zanotti, e sulle violenze in Val Susa. Chissà se lo scrittore, appassionato sostenitore del Pd, protagonista (secondo quanto riportato a suo tempo dall'Huffington Post) di un risoluto endorsement pro-Renzi, abbia avuto notizia degli assalti no Tav alle sezioni del suo partito, o delle minacce di morte al senatore Stefano Esposito, sempre del suo partito, colpevole di appoggiare l'alta velocità. Se si fosse applicato un po', avrebbe magari saputo che le prove e l'imputazione a carico di Zanotti, emerse per caso durante una inchiesta per droga a Bologna e confermate da intercettazioni e filmati, sono stati ritenuti più che sufficienti a tenerlo in carcere non solo dal giudice ma anche dal tribunale della Libertà, e che d'altronde neanche il giovanotto e i suoi tre complici hanno negato di fare parte della galassia degli irriducibili e nemmeno di avere messo la bomba, pur cercando di sostenere che si tratta di sabotaggio e non di terrorismo.
Dettagli, ragazzate, forse eccessi di utopismo. Ma quel che conta, scrive Benni a Mattia, è che «finché ci saranno giovani come voi, anche se diversi nelle idee e nelle forme di lotta, mi viene da pensare che questo paese abbia ancora un pezzo di anima e un respiro di speranza. A volte si è più liberi dietro un muro, che in un deserto di indifferenza. Tieni duro». «Non ti conosco. Ma ho avuto la tua età e mi sono ribellato, e ho provato rabbia».
Il finale è, come giusto, poetico: «Non conosco la tua storia, immagino sia quella di molti giovani che vivono in questo paese apparentemente senza anima e senza speranza. Molti giovani scelgono di lavorare all'estero, nelle emergenze umanitarie. Tu hai scelto di batterti per le cose in cui credi».
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