La libertà di usare i contanti è l'ultimo diritto da difendere

Sul Corriere della Sera Milena Gabanelli ieri è tornata a proporre l'abolizione del contante. La giornalista, che radicalizza quanto già è legge per volontà dell'ex ministro Giulio Tremonti, sottolinea che una parte significativa dell'evasione fiscale si annida in scambi economici che hanno luogo con il semplice trasferimento di banconote. Eliminando il contante si otterrebbero dunque grandi risultati nella battaglia contro gli evasori.
Vi sono buone probabilità che la proposta venga presa sul serio. Non dimentichiamo - altra eredità del precedente governo - che in Italia già c'è un maxi-computer (detto «Serpico») grazie al quale i dipendenti dell'Agenzia delle entrate possono seguire in diretta ogni decisione di spesa degli italiani. Un Paese che ha accettato di rendere totalmente trasparenti agli occhi dei funzionari pubblici i propri conti correnti è pronto a smarrire ogni altra libertà.
In particolare, prevale una logica «servile» - richiamo qui la formula coniata da Kenneth Minogue - in ragione della quale la nostra unica moralità consiste nell'uniformarsi al volere dello Stato. La legalità è l'ultimo orizzonte dell'esistenza e ne consegue che gli apparati pubblici possono utilizzare qualsiasi strumento per conseguire i loro obiettivi. Gli uomini non hanno diritti e il governo può esercitare un capillare lavoro inquisitorio su ogni aspetto della vita.
Poiché il denaro può essere usato malamente, lo Stato dovrebbe dunque vietare il contante. Ho depositato qualche soldo in banca, ma non posso ritirarlo perché potrei farne un «cattivo uso». È qui implicita un'inversione della prova, dato che ognuno di noi - per il solo fatto di voler disporre di contanti - è un potenziale evasore e rischia di usare quelle risorse per pagare in nero un idraulico.
Quella che si vuole è una società trasparente, dominata da un Potere che controlla ogni cosa: come nel Panopticon di Jeremy Bentham, che progettò un modello di carcere con al centro una torretta da cui osservare 24 ore al giorno ogni detenuto. D'altra parte, se il diritto è soltanto la volontà del ceto politico, nessuno può reclamare nulla a propria difesa. Dato che la prigione e la torretta sono state democraticamente decise, non c'è ingiustizia né abuso.
Da dove proviene, in effetti, l'obbligo di destinare allo Stato oltre il 50 per cento di quanti si produce? Viene da leggi votate dai due rami del Parlamento. Per la cultura dominante non si tratta di chiedersi se tali norme sono giuste oppure no: sono valide e questo basta. Nel secolo scorso in larga parte d'Europa c'erano leggi che impedivano di assumere un dipendente ebreo e altre anche peggiori. Domani potremmo avere norme che destinano al ceto politico il 100 per cento di quanto produciamo e anche quelle norme dovrebbero avere il nostro rispetto.
Questo dibattito aiuta a capire come alla base della crisi in cui ci si trova non vi siano semplici questioni economiche. Lo statalismo che uccide le aziende è la diretta conseguenza di una cultura che nega ogni diritto di proprietà. La durezza con cui nei giorni scorsi il premier Mario Monti ha parlato di «guerra all'evasione» la dice lunga su un Paese in cui «ladro» non è il ceto politico che sottrae ai produttori la metà di quanto realizzano, ma la società produttiva che prova a resistere. E se qualcuno ricorda le parole pronunciate nel 1994 da Milton Friedman, che aveva difeso le buone ragioni degli evasori di fronte a uno Stato fallito e spendaccione, è subito cacciato in un angolo.
Il senso dell'iniziativa della Gabanelli è chiaro. Il ceto parlamentare ha diritto di requisire ogni risorsa: e questo anche se l'Italia è in cima alla lista dei Paesi più tassati e anche se ciò sta deprimendo la vita economica.

Poiché lo Stato può espropriare a propria discrezione, anche sui metodi non si può sottilizzare.
Il fine giustifica i mezzi e la spesa pubblica legittima ogni abuso. Abbiamo perso la cultura della libertà e il prossimo passo, come sempre in questi casi, può essere solo un destino di miseria.

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