Marcello Dell'Utri è stato condannato in appello per concorso esterno in associazione mafiosa. Sette anni. Si parla già di arresto, per scongiurare ogni pericolo di fuga. Quella sul senatore bibliofilo sembra una storia con la sceneggiatura già scritta da tempo. In un Paese normale bisognerebbe solo prendere atto del verdetto dei giudici. Solo che in Italia i processi non appaiono più tanto normali. Il timore che dietro una sentenza ci sia anche una motivazione politica è difficile da scongiurare. Il rischio che l'indipendenza si stia evolvendo in accanimento purtroppo c'è. I tempi non sembrano mai casuali. Dell'Utri è il modo più semplice per colpire Berlusconi. Non è più in Parlamento. La stampa da anni lo ha già condannato e appena cominciano le trattative per il nuovo governo scatta subito l'arresto. Tutto casuale? Se si guarda il lavoro delle procure dall'alto i due pesi e le due misure appaiono più evidenti. A volte il confronto aiuta.
La legge è uguale per tutti, ma il tempo è relativo. E a quanto pare dipende dal colore politico. Prendete la storia di Alfonso Pecoraro Scanio, ministro dell'Ambiente del governo Prodi. La procura ci ha messo cinque anni solo per fare le indagini preliminari. L'accusa è di finanziamento illecito ai partiti, il passo è da tartaruga. Non c'è fretta. Certe questioni hanno bisogno di scavare in profondità. Il risultato è che il processo ancora non è neppure cominciato e intanto si avvicina la prescrizione. Il povero Pecoraro Scanio non è mica il capo dell'opposizione, non è un concorrente politico da mettere al più presto fuori gioco. La giustizia si prende il suo tempo perché non sente il demone della vendetta e non insegue, come si lamenta a volte anche Napolitano, ossessioni che nulla hanno a che fare con i doveri di un magistrato.
Quando in ballo invece c'è Silvio Berlusconi la giustizia diventa un treno ad alta velocità che sferraglia da tutte le parti. A Napoli si smania per il rito abbreviato, a Milano si mandano visite fiscali.
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