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L'unico leader resta il Cavaliere

La via obbligata di Angelino Alfano: ripartire da Berlusconi

L'unico leader resta il Cavaliere

Da un certo punto di vista il pasticcio è fatto: i ministri della destra si sono emancipati dalla sua leadership politica, raccogliendo le adesioni di un numero di parlamentari pensosi delle sorti del Paese (e delle loro personali) sufficiente per togliere a Berlusconi il potere di vita e di morte sul governo, nel quale consiste essenzialmente quella leadership. Da un altro punto di vista il pasticcio non è venuto bene, non è cotto a puntino: l'impresa a sfondo opportunistico, che non è necessario bollare con la categoria moralistica di «tradimento», non ha sbocco politico, non può avere esito centrista, che sarebbe penosamente minoritario, e non può risolversi nella cancellazione di quella persistente opinione di destra berlusconiana che anche gli ultimi sondaggi danno in forte spolvero.

Tutte le chiacchiere sui moderati, sul modello Partito popolare europeo, sulla destra moderna hanno scarsa credibilità. Intanto perché sono chiacchiere di sinistra, desideri e invocazioni che vengono dalla classe discutidora, patemi d'animo degli antiberlusconiani che non si limitano a voler mandare in galera l'Arcinemico, vogliono anche impossessarsi della sua eredità. Programma un po' troppo vasto, viste le effettive condizioni in cui versa la sinistra. E poi perché manca un'attrezzatura di idee e di programmi che abbia un fondo di intransigenza sul modello di società e di Stato che l'esercito elettorale di Berlusconi, per quanto disorientato e confuso, sa bene dove stia di casa. Sta a casa di Berlusconi, la cui leadership nel bene e nel male è stata per vent'anni personale, un uomo privato e la sua famiglia amicale, con tutti i difetti che questa soluzione ha comportato, al servizio di una prassi politica, e critica della politica, che scuote le istituzioni e le vecchie certezze istituzionali senza riuscire a fare la rivoluzione liberale ma senza neanche rinunciarvi.

Angelino Alfano dovrebbe essere abbastanza furbo da capire tutto questo. Se vuole tagliare la strada a uno scissionismo senza speranza finale e a un ministerialismo che verrebbe travolto dalle cose e dagli umori dell'Italia, se lo vuole, allora deve cercare una ricomposizione in cui la funzione di leadership di Berlusconi sia ripristinata, e non a chiacchiere. E qui casca l'asino. Perché Berlusconi vuol dire «questione giustizia», riforma della Costituzione e ripresa dello sviluppo basata su tagli strutturali della spesa e delle tasse, cose che entrano nel vivo del conflitto sociale sottostante l'attività e la credibilità di qualunque governo democratico in occidente. Alfano deve scegliere: o la sua è una lobby di ministeriali senza futuro politico serio oppure la vittoria parziale nello scontro con Berlusconi sul governo Letta è la premessa di una gestione combattiva e intransigente del potere di leva e di decisione che gli assetti parlamentari hanno dato alla destra italiana.

La faccenda, naturalmente, riguarda anche i berlusconiani che non hanno acceduto alla vampata opportunistica e hanno resistito nel tentativo di non separare il destino personale del leader da quello del governo. Hanno incassato una sconfitta, devono riconoscerlo con un minimo di serenità. Ma sono maggioranza nel popolo berlusconiano e nel partito e nei gruppi parlamentari, sebbene questa maggioranza non sia stata sufficiente a orientare le cose nel verso da loro desiderato per un forte dissidenza dei ministeriali (e dei pavidi). Come orientare questa forza, questa maggioranza reale? Ha sbocco una prospettiva di rottura «congressuale», una conta? O non è più giusto da ogni punto di vista obbligare Alfano e il suo gruppo governativo a esercitare in una direzione sensata e politicamente forte la delega che si sono presi a viva forza? Credo sia più interessante e utile, anche e sopra tutto dal punto di vista degli interessi del paese e dell'Italia inquieta che la sinistra vuole cancellare con un nuovo regime, muoversi in questa direzione.

Per farlo ci vogliono idee, movimenti del Paese reale intorno a queste idee, non giaculatorie di fedeltà e di lealismo o logiche del tanto peggio tanto meglio. Bisogna battersi perché finisca il tran tran e perché la larga coalizione politica, voluta da Berlusconi che poi non è riuscito a disfarla in condizioni personali molto critiche, sia sollecitata ad agire in Italia e in Europa in modo significativo, nel senso delle riforme necessarie e non attuate, a partire da quelle indicate nella famosa lettera della Banca centrale europea. E molto altro ancora. Non vedo altri modi per ripristinare alla fine un funzionamento serio del bipolarismo e del sistema dell'alternanza, restando competitivi con il progetto di ristrutturazione della sinistra sul modello di Matteo Renzi (un progetto tutt'altro che concluso, tutt'altro che di successo anche nelle premesse). Lo scontro nel partito berlusconiano è cieco, non parla al Paese, è fatto di nomenclatura, mentre lo scontro sui temi di riforma e sul fisco e sulla politica estera, e principalmente sui temi della giustizia, delinea una demarcazione vera, anche affilata, ma vera.

E può rendere competitivo ancora una volta, nonostante la persecuzione di Berlusconi abbia messo al suo attivo il punto decisivo della condanna Esposito, il meglio che il berlusconismo ha espresso in questo luogo di sepolcri imbiancati che noi siamo.

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