«Non saranno quattro untorelli a spiantare il grande Partito comunista!», tuonò Enrico Berlinguer dal palco della festa dell'Unità di Genova, nel settembre del 1977, mentre le piazze italiane erano piene di giovani che, per la prima volta nella storia, contestavano anche il Pci, colpevole di appoggiare il governo Andreotti. Di fronte alla protesta giovanile, il Pci si chiuse a riccio e pronunciò la sua fatwa: «untorelli», cioè propagatori della peste; e, naturalmente, «fascisti». In quegli anni la polemica politica, ancorché violenta, era un po' più colta di quanto non sia oggi, e gli intellettuali comunisti precisavano che il movimento del '77 aveva molti punti in comune con il «diciannovismo», cioè con la fase nascente, movimentista e anti-istituzionale, del movimento fascista.
L'insulto di Bersani a Beppe Grillo, ripetuto ieri seppur in forma più sfumata, non è dunque una novità: nel lessico della sinistra (post)comunista tutti quelli che non sono d'accordo col partito diventano, prima o poi, «fascisti». Capitò a Trotsky, e capitò a tutti i partiti socialisti d'Europa alla fine degli anni '30, accusati indistintamente di «socialfascismo» perché non aderivano entusiasticamente alla politica sovietica. Fascista fu a un certo punto Pannella, e poi il «mussoliniano» Craxi.
La categoria del «nemico interno» (o tutt'al più confinante) è centrale per comprendere la psicologia, e dunque anche la storia, della sinistra non soltanto italiana. C'è un vistoso paradosso nel proclamare a ogni piè sospinto l'«unità» (dei progressisti, della sinistra, dei lavoratori, del partito) e nell'avere invece una storia fitta di scissioni, scomuniche, lotte intestine, scontri fratricidi. Tanto per dire: senza contare Vendola, siamo l'unico Paese al mondo in cui ci sono almeno tre partiti comunisti (quello di Ferrero, quello di Diliberto e quello di Ferrando, che accusa gli altri due di «revisionismo»). Quanto a Bertinotti, dapprima fu corteggiato da Prodi perché indispensabile alla vittoria elettorale del '96, poi fu accusato di essere un traditore e un oggettivo complice di Berlusconi, dopo qualche anno fu riabilitato e trionfalmente eletto alla presidenza della Camera e infine, nel 2008, fu buttato fuori dal Parlamento da quello stesso Veltroni che era diventato vicepremier grazie ai suoi voti.
Il motivo di questo devastante paradosso - proclamare l'unità e farsi la guerra l'un l'altro - deriva probabilmente dalle origini rivoluzionarie: la purezza è infatti un'arma pericolosissima, e chi ne fa uso normalmente ne diventa vittima. Del resto, proprio questo è successo ad Eugenio Scalfari: per anni Repubblica ha lisciato il pelo al giustizialismo più violento, salvo poi ritrovarsi sotto il fuoco amico di Gustavo «Fracchia» Zagrebelsky).
Lo scontro interno a Repubblica è speculare, ma non simmetrico, alla guerra scatenata da Bersani contro Grillo e l'ex amatissimo alleato Di Pietro. Qui sono in ballo i voti, e non si va troppo per il sottile. Così Di Pietro, che è stato portato in politica nel 1997 dal Pds di D'Alema con la candidatura blindata al Mugello, e che è stato poi resuscitato nel 2008 dal Pd di Veltroni, che rifiutò l'accordo con Rifondazione e con i socialisti, ma aprì le braccia all'ex pm, oggi è diventato il nemico pubblico numero uno. Anzi, numero due: perché è il «fascista» Grillo a incutere un vero terrore nel gruppo dirigente del Nazareno.
E il motivo è abbastanza semplice: Grillo dice la verità - o, per meglio dire, dice alcune verità scomode per il Pd. Qui forse ci avviciniamo al nocciolo della questione. Il nemico interno è sì un potenziale avversario nella raccolta del consenso, dei voti, dei finanziamenti e della militanza, e dunque va stroncato sul nascere. Ma, soprattutto, il nemico interno è quello che dice una verità sgradita al vertice del partito, che della Verità è l'unico depositario autorizzato, oppure che anticipa scelte e posizioni che il medesimo vertice giudica non ancora «mature» e opportune.
Non è difficile, ripercorrendo la storia della sinistra italiana nel dopoguerra, trovare le prove di questo triste fenomeno. A Saragat, che pure aveva fatto la Resistenza, fu dato dell'ubriacone quando nel '47 uscì dal Psi per fondare il Partito socialdemocratico. Sul versante sinistro, non andò meglio agli ingraiani del Manifesto, che furono buttati fuori dal Pci, nel '69, tra l'altro per aver appoggiato troppo entusiasticamente la Primavera di Praga e aver duramente criticato i sovietici. Fu però lo stesso Berlinguer, dieci anni dopo, a dichiarare «esaurita» la «spinta propulsiva» dell'Unione sovietica.
Nel Pci, insomma, c'era un tempo per ogni cosa: e a deciderlo era il Comitato centrale. Ne fece le spese Marco Pannella, accusato di volta in volta di essere un «provocatore» o addirittura un «fascista» (ancora!), malmenato dal servizio d'ordine e irriso nelle sue battaglie nonviolente, salvo poi riconoscergli, vent'anni dopo, lo status di padre della patria.
Ma è stato senz'altro Bettino Craxi il più odiato «nemico interno» del Pci, il mostro frutto di una «mutazione antropologica» (parole di Berlinguer), l'avversario da sterminare. Eppure Craxi era il segretario del Psi, e socialisti e comunisti convivevano felicemente nelle giunte delle più grandi città, nella Cgil, nel movimento delle cooperative. E Craxi era, ed è sempre stato fino agli ultimi giorni dell'esilio ad Hammamet, un uomo di sinistra, un figlio della sinistra italiana orgoglioso delle proprie origini e delle proprie idee. Semplicemente, quelle idee erano troppo moderne per il Pci.
di Fabrizio Rondolino
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