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Mora eroe della sinistra (ma soltanto per un'ora)

Al processo per prostituzione, l'ex agente dei vip sembra sul punto di dare ai pm la "pistola fumante" che può incastrare Berlusconi. Poi ritratta tutto

Lele Mora in tribunale a Milano
Lele Mora in tribunale a Milano

Milano - Per un'ora scarsa, nell'aula del processo Ruby 2 si materializza l'ombra del colpo di scena. Quel colpo di scena che potrebbe cambiare di botto la storia di un processo - anzi di due processi - trascinatisi per anni senza che in aula succedesse nulla di imprevisto: i testimoni d'accusa accusavano, quelli delle difese difendevano, alla fine tutti restavano della loro idea su cosa sia accaduto davvero nelle notti di Arcore. Invece ieri si alza Lele Mora, imputato di induzione alla prostituzione per avere portato a casa di Berlusconi le ragazze della propria scuderia, compresa la minorenne Ruby, e legge tre pagine di dichiarazioni spontanee.
Tutti in aula fanno un salto sulla sedia. Mora scarica Berlusconi. Questa è la sensazione che chiunque sia presente in aula percepisce con chiarezza. Mora parla di «dismisura, abuso di potere e degrado». Ed è ben vero che ormai Silvio Berlusconi è stato condannato, e peggio di così non gli può andare. Ma se lo accusa anche il suo amico Mora, ammesso da anni alla sua corte e da lui aiutato con strabiliante generosità, allora vuol dire che per il Cavaliere è proprio la fine. Per la Procura la «pistola fumante» che finora mancava.
Peccato che poco dopo, alla prima pausa, in corridoio Mora compia, tra lo stupore generale, una brusca retromarcia. Spiega ai cronisti di essere stato frainteso. Di essere stato ad Arcore, di avervi portato alcune ragazze, e di non avervi mai visto nulla di sconveniente. «Sono figlio di contadini e mi piace dire la verità», spiega. E la verità è che lui a Berlusconi vuole bene, che Berlusconi non ha mai ammazzato nessuno. Eccetera.
E dunque? Il pentimento lampo di Mora è stato un colossale abbaglio collettivo? O è stato un sasso lanciato nello stagno, il messaggio in codice di un uomo in difficoltà? È importante ricordarsi che non si sta parlando di un imputato qualsiasi ma di un esperto di comunicazione, un uomo che conosce perfettamente i meccanismi dei media. Per definire le cene di Arcore, Mora usa tre espressioni che prende da un quotidiano: dismisura, abuso di potere e degrado. La citazione viene da Repubblica, da un articolo di Giuseppe D'Avanzo. «È vero, così è stato, ed io ho contribuito almeno all'eccesso e al degrado», specifica Mora ai giudici. Ma poi, in corridoio, prende le distanze da quella citazione: «Ho detto solo quello che ho letto su un quotidiano. Non esiste il degrado. Le cene eleganti di Berlusconi erano cene, non c'era altro. Berlusconi ha aiutato delle persone in difficoltà nient'altro. Per me è un grande signore niente di più. Io è dal 1985 che vado ad Arcore, ci ho portato imprenditori e artisti. Berlusconi è un mio amico che rispetto, e se invita sono orgoglioso di accettare. Non è un assassino e non è uno che faccia prostituire la gente».
Come i due Mora - quello in aula e quello in corridoio - siano compatibili, è tema complesso. Il suo difensore Gianluca Maris, che chiede ai giudici l'assoluzione perché il fatto non costituisce reato, spiega che il degrado di cui parlava Mora era semmai il «degrado di un intero mondo, il mondo di cui lui stesso era diventato un'icona; parliamo di un degrado sociale e culturale che non riguarda questa o quella cena, ma un universo». Poiché però i giudici non dovranno occuparsi di fenomeni sociali e culturali ma di reati e di prove, bisogna capire se quella frase buttata lì in aula e poi ritrattata o reinterpretata peserà nel corso del processo. I due pm presenti in aula, Piero Forno e Antonio Sangermano, non sembrano emozionarsi più di tanto. Certo, se la sua mezza accusa Mora l'avesse fatta un po' prima, quando il processo a Berlusconi era ancora aperto, avrebbe avuto un altro peso.

Detta oggi, dopo la condanna-batosta del Cavaliere, sembra - magari anche al di là delle intenzioni di Mora - la mossa quasi disperata di un uomo che da quella sentenza ha tratto i peggiori auspici per la propria sorte. Perché Lele Mora, a differenza dei suoi coimputati, il carcere lo già conosciuto. E ieri, prima di rientrare in aula, confessa: «Io ho paura di una sola cosa. Ho paura di tornare in galera».

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