Nel palco reale il potere fa la pace davanti a "Don Carlo" sovrano assoluto

La Russa e Sala lasciano il posto d’onore alla senatrice Segre, accolta da un applauso. Prima dell’inno una voce isolata: «No al fascismo»

Nel palco reale il potere fa la pace davanti a "Don Carlo" sovrano assoluto
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Il Don Carlo è forse l’opera più travagliata, oltre che monumentale, di Giuseppe Verdi. Ebbe una gestazione complessa e laboriosa, e alla fine ne vennero fuori quattro versioni, tutte personalmente revisionate dal maestro. C’è da dire che anche la messa in scena, per la Prima di quest’anno, ha avuto i suoi tormenti.

Appena rientrata la protesta delle «maschere» della Scala contro il precariato, mercoledì, per un’intera giornata, il sindaco Beppe Sala e la senatrice Liliana Segre, in spregio a ogni protocollo, hanno allestito il loro personalissimo teatrino: noi stiamo in platea, non andiamo nel Palco Reale, lì ci sono i fascisti, noi ce ne stiamo da soli... Poi Ignazio La Russa, presidente del Senato e più alta carica presente a teatro dopo il forfait del presidente della Repubblica Mattarella e della premier Meloni, spiazza tutti dicendo «Allora scendo anch’io». E alla fine, consociativismo spicciolo all’italiana, eccoli tutti riallineati e composti sul Gran Palco centrale. Pace fatta e applausi bipartisan. Le rivoluzioni, da noi, durano giusto fino al buffet.

E ieri sera, per la Prima, alle 18 in punto, ora di inizio dell’opera, il parterre politico aveva appena finito di sorridere a denti stretti, tutti di nuovo uno accanto all’altro (Sala, la Segre e La Russa, l’unico a cantare l’Inno scandendolo parola per parola; e nella fila dietro i ministri Salvini, Sangiuliano e Casellati) che ecco un altro inciampo. Il maestro Riccardo Chailly non aveva ancora fatto cadere l’ultima nota del Fratelli d’Italia che dal loggione parte l’urlo «Viva l’Italia antifascista!». Seguito, per la verità, da pochi timidissimi applausi.

L’intemperante libertario sarà poi identificato dalla Digos...

Tutti quanti, già al primo intervallo, vorrebbero andare oltre le polemiche politiche, da Salvini («Chi viene a sbraitare alla Scala ha un problema, è nel posto sbagliato») a Fedele Confalonieri («Strano, quando al governo c’è la sinistra nessuno contesta...») fino all’ex sovrintendente del Piermarini Alexander Pereira («L’antifascismo non ha niente a che fare con la Prima della Scala»).

Ma poi in realtà il tema sul 7 dicembre (anti)fascista terrà banco fino al dopo-Scala, cena di gala alla Società del Giardino. Perché la Prima della Scala è sempre politica.

Tanto più quest’anno che in scena c’è il Don Carlo, opera maestosa che attraverso il contrasto tra genitore e figlio - Filippo II di Spagna, incarnazione della monarchia assoluta, e Don Carlo, più liberale, entrambi innamorati della stessa donna, Elisabetta di Valois - ci parla delle tempeste del potere, della maledizione e benedizione della politica, di nazionalisti, di intrighi e veleni di corte, di fede e ragion di Stato, di fanatismi religiosi... Ambientato nella Spagna cupa e sontuosa del ’500, durante la guerra fra il Re cattolico e i ribelli protestanti delle Fiandre - le scenografie dai colori cupi richiamano i pittori spagnoli della Controriforma, Velázquez in primis, e poi velluti neri, gorgiere di pizzo, armature lucenti, un’enorme pala d’altare cesellata d’oro – il Don Carlo profuma di incenso e ragion di Stato, trono e altare, conflitti fra Regno e Chiesa.

La grande scena dell’Autodafé, alla fine del secondo atto, sulla piazza della cattedrale di Valladolid, con il Grande Inquisitore davanti al quale sfilano gli eretici condannati a morte, è il modo con cui Verdi fa risaltare lo scontro fra due diverse concezioni del potere e della politica, quella di Filippo II e del figlio Carlo.
Kolossal che ci porta nel dietro le quinte del potere, tra segreti, tradimenti e arbitri, l’opera di Giuseppe Verdi scandaglia il lato oscuro dell’autorità: tracotanza, disumanità, amoralità, violenza. E solitudine. Il potere, è il grande insegnamento (anche per i nostri politici?), infetta, corrompe, rende soli.

Nel foyer e nei palchi, invece, i potenti della città, del Paese, dell’economia, delle banche, dei giornali, della cultura, stanno benissimo tutti insieme. L’ex premier Monti, i banchieri, Corrado Passera, l’ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, il presidente dell’Enel Paolo Scaroni, direttori di quotidiani, il direttore di se stesso Roberto D’Agostino, il presidente dell’Abi Antonio Patuelli... Ma ci sono anche Patti Smith e quest’anno addirittura Pedro Almodóvar. Con gli occhiali scuri.
La lista è lunga, e lo spettacolo anche.

Quattro ore e due minuti di opera, quattro atti, due intervalli per misurare il proprio potere sociale, 13 minuti di applausi, il Don Carlo di Verdi diretto da Riccardo Chailly con il suo allestimento sobrio e elegante e la sua regia tradizionale e

tradizionalista è quanto di più nazionale - e nazionalistico?
– possa offrire un’opera che per ben otto volte ha inaugurato la stagione della Scala, dal 1868 a oggi. Il Potere, con le sue distorsioni, è un’abitudine nazionale.

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