Milano - Alla fine decideva tutto lui, Silvio Berlusconi. O no? Sarà questo uno dei dilemmi cui martedì prossimo dovranno trovare risposta i cinque giudici della Cassazione chiamati a decidere la sorte del Cavaliere. Perché è ben vero che il processo per i diritti tv è complesso, e per ricostruire fatti e reati serve addentrarsi in perizie e testimonianze da emicrania, tra sovrafatturazioni e società offshore. Ma per condannare Berlusconi serve un passo in più, ed è un tema relativamente più semplice. Serve che i giudici romani si convincano che a commettere il reato di frode fiscale è stato lui, anche se nel 2000 e 2001 - gli anni al centro del processo - non aveva più da tempo cariche nel gruppo del Biscione; e - dettaglio non da poco - faceva a tempo pieno, o quasi, prima il leader dell'opposizione e poi il presidente del Consiglio.
È un tema cui sia la sentenza di primo grado che quella d'appello dedicano poco spazio. Per i giudici del tribunale conta soprattutto una prova logica: il sistema per gonfiare i costi dei film era «congegnato e strutturato con sistemi mezzi e modalità tali da richiedere un apporto che deve provenire da un soggetto munito di un potere indiscusso e generale», cioè da Silvio; e proseguire la «societas sceleris» con Frank Agrama e Alfredo Cuomo, i due grossisti di diritti, «non necessitava del formale esercizio di poteri gestori in Mediaset»: anche da Palazzo Grazioli o Palazzo Chigi, insomma, Berlusconi avrebbe proseguito a governare la rete di società ombra che drenavano centinaia di milioni, come «azionista di maggioranza e dominus indiscusso». Sono ragionamenti che la sentenza d'appello riprende e fa propri.
Ma per arrivare a condannare Berlusconi la Cassazione dovrà fare i conti anche con l'altro piatto della bilancia, e cioè le testimonianze che dicono esattamente il contrario: e cioè che dai tempi della quotazione in Borsa di Mediaset e della discesa in politica, Berlusconi era non solo formalmente estraneo alle cariche sociali, ma anche sostanzialmente lontano dalla vita dell'azienda. Sono elementi condivisi dalle sentenze che in due processi gemelli sulla gestione dei diritti tv hanno assolto Berlusconi a Milano e a Roma, e sono state confermate in Cassazione. La stessa Cassazione già nel 2001 aveva scritto parlando di Berlusconi che «le emergenze processuali non hanno dimostrato la concreta e rilevante ingerenza dell'imputato nella trattativa e nella definizione delle modalità di retrocessione parziale del prezzo». E ci sono testimonianze a difesa che confermerebbero l'estraneità di Berlusconi sia alla compravendita dei diritti che alle strategie fiscali: alcune vengono dall'interno del gruppo, come quella di Ubaldo Livolsi, che ha escluso qualunque ruolo del Cavaliere; ma altre da professionisti esterni come il presidente del collegio sindacale Achille Frattini. E c'è la testimonianza del diretto responsabile degli affari fiscali di Mediaset, Marco Cittadini, che in aula ha spiegato di avere fatto tutto di testa propria, e di non avere mai ricevuto da Berlusconi suggerimenti o indicazioni.
Ma più delle testimonianze a difesa, sul giudizio di martedì prossimo della Cassazione potrebbero pesare le considerazioni espresse nei processi gemelli per questa storia dei diritti tv, e già ratificate da sezioni ordinarie della Cassazione stessa: quelle che dicono che non vi è traccia di «alcun elemento probatorio, preciso e concreto, che possa considerarsi apprezzabilmente significativo dell'esistenza in capo all'imputato Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset nel periodo di riferimento dei fatti per cui si procede». Un ostacolo che scavalcare potrebbe essere difficile.
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