Nessuno paga mai il conto per gli orrori finiti in Rete

Assoluzione per Google: secondo i giudici non spettava all’azienda controllare il video col ragazzo down maltrattato

Nessuno paga mai il conto per gli orrori finiti in Rete

Il web è sacro e intoccabile? Tutto quello che va in rete dev'essere privo di controlli? Perché l'obbligo di controllo sui contenuti che riguardano tutti i media non dev'essere esteso a internet? Una «verifica preventiva di tutto il materiale immesso dagli utenti» non può «essere ritenuta» doverosa, perché «demandare a un internet provider un dovere-potere di verifica» è un'opzione «non scevra da rischi, poiché potrebbe finire per collidere contro forme di libera manifestazione del pensiero». Sono le parole con le quali la Corte d'Appello di Milano ha motivato ieri l'assoluzione, avvenuta il 21 dicembre scorso, di quattro manager di Google dall'accusa di violazione della privacy. Nel settembre 2006 un gruppo di ragazzi di un istituto tecnico torinese aveva pubblicato sul motore di ricerca un filmato che mostrava maltrattamenti e vessazioni ai danni di un loro compagno disabile minorenne. Dopo due mesi in cui era stato cliccatissimo, il video venne rimosso. In primo grado i responsabili di Google furono condannati a sei mesi (pena sospesa). La sentenza suscitò molto clamore perché si trattava del primo processo, a livello mondiale, ai manager di un motore di ricerca per la pubblicazione di contenuti sul web. Il verdetto di condanna fu duramente criticato dall'ambasciatore americano a Roma, David Thorne, e anche dalla stampa statunitense che parlò di «regalo» ai regimi contrari all'internet libero. In dicembre, arrivò l'assoluzione «perché il fatto non sussiste». Ma ora le motivazioni insistono sulle difficoltà tecniche di un «efficace controllo sulla massa dei video caricati da terzi, visto l'enorme afflusso di dati». Secondo i giudici l'obbligo «di impedire l'evento diffamatorio, imporrebbe un filtro preventivo» che finirebbe per alterare la funzionalità della rete. Inoltre, potrebbero verificarsi rischi per la «libera manifestazione del pensiero». Certamente una preoccupazione da non sottovalutare, anzi. Tuttavia, la materia è complessa.

Nella vicenda in questione siamo di fronte a una forma di bullismo esibito via web. Ma la casistica diffamatoria è potenzialmente infinita. Pur riconoscendo le difficoltà di filtro preventivo, dopo questa sentenza siamo tutti esposti a qualsiasi violazione della privacy. Riescono a malapena a tutelare la propria immagine e i propri diritti personalità pubbliche e gruppi commerciali. Ma per il comune cittadino rischia di non esserci riparo. La giurisprudenza relativa alla violazione della dignità della persona andrebbe separata da quella che riguarda la manifestazione del pensiero. Nella evoluta società della comunicazione esistono le authority. I social network più raffinati rimuovono dalle loro piattaforme immagini e contenuti offensivi.

I direttori responsabili delle testate giornalistiche vengono condannati per omesso controllo. Perché la rete è esente da una simile regolamentazione? «L'enorme afflusso di dati» basta da solo a giustificare questa esenzione? Forse qualcosa si può fare.

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