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"Nessuno può ricattarci". Renzi sbriciola Mineo e la minoranza interna

Il segretario dal palco dell'assemblea sbaraglia il dissenso e impone come presidente Orfini per aprire a sinistra

"Nessuno può ricattarci". Renzi sbriciola Mineo e la minoranza interna

Senza dubbio è anche l'effetto di quel colossale memento, «40,8%», che ieri dominava la platea dell'Ergife, ma l'avanzata renziana in quel Pd che un anno fa lo respingeva come corpo estraneo appare inarrestabile.
Il segretario-premier, in un'oretta di applauditissima relazione all'assemblea nazionale del Pd sbaraglia il dissenso dei senatori anti-riforma, piallando il malaccorto Corradino Mineo (costretto a chiedere scusa a Renzi, alla Boschi e a tutti i bambini autistici del mondo: «La Boschi pensa di saper far tutto ma non è in grado, Renzi sembra un ragazzino autistico», aveva detto). Sbriciola quel che resta della minoranza interna scegliendo come presidente del Pd Matteo Orfini, leader dei Giovani Turchi e testa politica dialogante della sinistra Pd: un «divide et impera» da manuale.

Celebra il risultato «sconvolgente» delle elezioni europee ed amministrative: «Era dal 1958 che nessun partito arrivava a questo dato», sottolinea, ma il Pd non lo deve vivere come «un punto d'arrivo», piuttosto come «una responsabilità vertiginosa». Schiaffeggia i giornali, che han fatto paginate sul caso Livorno sottovalutando la vittoria Pd nel resto d'Italia: «Alcuni illustri commentatori hanno detto che nei Comuni si è concluso con un pareggio. Poi ci si chiede come mai i giornali perdono copie e noi guadagniamo voti». Seppellisce Grillo: «Trionfante la marcia del M5S: in tre anni hanno preso tre capoluoghi di provincia. Tra soli 105 anni avranno in mano l'Italia». Sulla giustizia, linea dura contro i corrotti anche del Pd («Chi tra di noi avesse notizie di reato, salga i gradini di un palazzo di giustizia e vada a dirlo ai magistrati. Lo faccia per i nostri volontari»), ma nessuna indulgenza verso il giustizialismo: «Siamo garantisti veri. Un avviso di garanzia non può essere una condanna, l'abbiamo detto chiaramente e rischiando».

Irride alle proteste dell'Anm: «Non è un attentato all'indipendenza delle toghe mettere un tetto ai loro stipendi». Annuncia che a settembre, dopo la legge elettorale, si faranno le civil partnership, legalizzando quindi anche le unioni gay: «È un impegno che abbiamo preso alle primarie». E che sulla Rai «va aperta una discussione seria: con quel numero di dipendenti, quel numero di sedi regionali e quel potere pervasivo della politica non andiamo da nessuna parte». Quanto ai dissidenti del Senato, «è legittimo che un singolo senatore esprima il proprio dissenso in Aula, ma non mandi sotto la maggioranza in commissione. Questo è un partito non un movimento anarchico. Non possiamo permettere a nessuno di ricattare la posizione del Pd e il 40,8%». Conquista un'ovazione annunciando che «le feste del Pd torneranno a chiamarsi feste dell'Unità», mettendo il proprio timbro sulla tradizione più antica della sinistra italiana.

La platea ascolta estasiata, applaude entusiasta, vota a schiacciante maggioranza Orfini presidente. Una scelta operata nella notte da Renzi, dopo che la minoranza interna si era divisa, con Gianni Cuperlo che proponeva il nome (ingombrante) di Nicola Zingaretti. In settimana toccherà alla nuova segreteria, che completerà l'opera della pax renziana nel Pd, coinvolgendo tutte le correnti. I big del passato, da D'Alema a Veltroni a Bersani, tacciono in platea e se ne vanno subito dopo la relazione del segretario. A fare la fronda restano in pochi. Pippo Civati non interviene: «C'è un clima da torcida brasiliana che non consente la discussione». L'unico intervento di un dissenso ormai in via di riassorbimento (i renziani fan persino girare il nome di Felice Casson come candidato sindaco a Venezia) è del senatore autosospeso Walter Tocci, che accusa il premier di «atti di imperio che sono come schiaffi alle mosche», e lo invita a stare «fuori dalle riforme».

Non verrà ascoltato, questo è certo.

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