"Non andrò a votare, la cittadinanza non deve essere facile"

Così Nadeem Chaudhry, 34 anni, italo-pakistano, traduttore e mediatore culturale: "Scorciatoie rischiose. Serve un percorso sui diritti e sui doveri, sul valore della democrazia e della libertà di parola"

Nadeem Chaudry
Nadeem Chaudry

«No, non andrò a votare. La cittadinanza non deve essere più facile, deve essere valorizzata». Parola di Nadeem Chaudhry, 34 anni, italo pakistano, mediatore culturale, critico a dir poco con il quinto quesito referendario. «Io - spiega - in questo tentativo di facilitare la cittadinanza tagliando i tempi vedo il rischio di diminuire il valore culturale e sociale dell’integrazione. Ecco, questo quesito è l’ennesimo cavallo di Troia che questa ideologia di sinistra vuole introdurre».

Nadeem è nato nel Punjab, regione settentrionale del Pakistan. È originario della stessa città di Saman Abbas. Vive in provincia di Reggio Emilia da oltre 20 anni, arrivato con il classico ricongiungimento familiare, il padre lavorava qui. «Io - racconta - conosco la cultura pakistana e ho continuato a informarmi sull’evoluzione della realtà dalla quale provengo. Conosco la lingua urdu, il punjabi, l’inglese e altre lingue. Quindi ho lavorato nell’accoglienza, prima come traduttore e poi come operatore». «In questi centri - racconta - si accolgono persone provenienti da ogni parte del mondo, rifugiati o richiedenti asilo. E credevo e credo giusto che queste persone che fuggono dal loro Paese per guerre per carestie o situazioni disumane siano accolte in un Paese che possa dare loro protezione». Questa è la convinzione. Ma l’esperienza ha articolato meglio questa convinzione. «C’è un punto però - aggiunge - Vedendo questo gran numero di connazionali che chiedono protezione, intanto mi sono detto: “In Pakistan non c’è guerra. Certo ci sono problemi, dinamiche complicate ma non uno stato di emergenza”. Io stesso viaggiavo, tornavo, vedevo una nazione normale, con una quotidianità «fluida». Qualcosa non mi tornava».

L’esperienza concreta ha permesso di farsi un’idea precisa. «Molto spesso gli stessi ragazzi richiedenti asilo mi dicevano: “Domani devo andare in commissione. Cosa devo raccontare per ottenere un permesso?”. Era agghiacciante, non lo ritenevo giusto, anche perché questo danneggia chi veramente ha bisogno, chi davvero fugge da guerre o pericoli reali. Ho cominciato a chiedermi: chi stiamo accogliendo? Ho cercato di informarmi su questo fenomeno». «Parlando e conoscendo le storie delle persone - secondo Nadeem - puoi farti un’idea e dare un giudizio molto diverso da quello della narrazione prevalente in Italia e in Europa».

Il punto è l’integrazione: «L’Italia è un Paese occidentale, che dà la possibilità di vivere, andare a scuola, avere una famiglia e tutti i diritti di base. Ma cosa intendiamo per accoglienza e integrazione? Parliamo sempre di diritti, mai di doveri. Quelli che vengono in Italia da adulti non vanno a scuola, imparano un lavoro e una lingua per lavorare, ma non hanno la possibilità di studiare e capire i doveri sociali del cittadino. Si basa tutto su ciò che può essere garantito. E spesso crediamo che dare la cittadinanza a una persona significhi “dare diritti”. Ma dobbiamo intenderci, per molti cittadinanza è solo un pezzo di carta. Moltissimi, dopo aver ottenuto questo “diritto” non si vedono più. Li ritrovi in altri Paesi». «Altri arrivano al giuramento e sono neanche in grado di leggere una frase sul giuramento. Lo vedono come una cosa garantita, burocratica».

«Io - dice al contrario - sono contro questo referendum perché penso al contrario che sia importante valorizzare la cittadinanza, lo status di cittadino italiano. Io sono contro il quesito perché facilita, e per le cose che vedo, l’Italia sta diventando e diventerà sempre più un territorio di passaggio, dove vieni, ottieni un permesso e poi prosegui. Invece di dimezzare i tempi, dovremmo intensificare il percorso sulla conoscenza della storia e della cultura italiana. Non solo parlare italiano, ma capire in quale Paese viviamo e su cosa sta lavorando e andando avanti. L’Italia non può essere vista come un bancomat. Se qualcuno si è preso la briga di lasciare il Paese d’origine e venire qui, un motivo ci sarà. E non può essere solo quello economico, senza neanche conoscere i diritti e i doveri, il valore della democrazia, il valore della libertà di parola».

«E la mia - assicura - non è la storia di chi arriva prima e vuole chiudere a chi arriva dopo. Al contrario. Ma bisogna valorizzare la cittadinanza, l’impegno sociale, culturale, e chi dà un contributo. Anche le associazioni di volontariato spesso sono viste come enti che erogano, ma quanti pensano che siano realtà da sostenere e aiutare?».
«In Italia si pensa che la sinistra sia quella che è per gli stranieri, per i loro “diritti”. Questa è la auto-proclamazione di una sinistra che si sente paladina di diritti e integrazione. Ma tanti stranieri si sentono approvati in tutto, credono per esempio che avere una mentalità patriarcale sia normale, consentito anche in Italia. Se il messaggio è: “Quel che fai è giusto per definizione”, si autorizza anche ciò che va contro i valore costituzionali. In nome dell’integrazione, tutto viene concesso. Lo straniero va sempre bene, non deve sforzarsi, anzi è l’Italia che si adatta a lui.

Ecco l’ideologia che non capisco e non approvo, di chi si fa portatore autoproclamato dell’integrazione e bolla come “razzista” gli altri. Ecco, questo quesito è l’ennesimo cavallo di troia che questa ideologia di sinistra vuole introdurre».

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