di Stefano Zecchi
L'Università è lo specchio di una Nazione. Ci saranno anche eccezioni, ma la formazione della classe dirigente e dei ricercatori scientifici che portano avanti lo sviluppo di un Paese è opera delle Università. Il sistema Paese è in crisi; l'Università è in crisi. Ma non si tratta soltanto di una questione economica: almeno per quello che riguarda gli atenei. Molti studenti, molti laureati se ne vanno, ma - per favore - non chiamiamo questo esodo «fuga di cervelli»: sono semplicemente giovani che hanno capito che aria tira da noi, che hanno voglia di studiare (se sono ancora iscritti alle Facoltà) o che sanno di aver studiato bene e ritengono giusto essere messi alla prova, essere valutati per il loro merito. Non sono dei geni, sono ragazzi e ragazze normali che hanno compreso l'importanza di studiare, che avrebbero voglia di dare il loro contributo al proprio Paese, lavorando. Qui da noi si trovano le porte chiuse, o così difficili da aprire che lo sforzo appare umiliante.
Stanno arrivando al pettine i nodi di una situazione che non si è voluta comprendere alle sue origini e poi nei suoi sviluppi. Vi ricordate quando la parola «meritocrazia» suonava come una bestemmia? Eravamo agli inizi degli anni Settanta, inizio, anche, dello sfacelo degli studi. Poi ci si è accorti di aver esagerato, e la meritocrazia è tornata ad ali spiegate, dopo una ventina d'anni, in tutti i discorsi possibili e immaginabili: non solo nessuno si vergognava più di pronunciarla, ma era diventata la bandiera della rinascita.
Ma quando si parla tanto di una cosa, sorge un piccolo sospetto: non si tratterà, per caso, del classico predicare bene e razzolare male? Ci saranno eccezioni, sarò pessimista, ma il merito è tanto osannato quanto poco messo in pratica. Anche perché il premio dovrebbe prevedere il suo opposto: il castigo. Insomma, fare delle differenze, discriminare. Che brutta parola «discriminare»! Abbiamo tutti gli stessi diritti: somari e persone capaci, fannulloni e volonterosi. E poi vorremmo discriminare il figlio di... ? Dobbiamo trovargli un posto all'altezza del padre!
I giovani, quelli capaci e volonterosi, sanno che da noi è questa la mefitica atmosfera che respirano. Ma sia chiaro: abbiamo ancora buone Università, buoni centri di ricerca, in cui si formano studenti che possono competere a livello internazionale. Per citare un ateneo (soltanto uno): il Politecnico di Milano.
Molte sono le Università decadute, quelle che non riescono a mantenere uno standard di livello europeo. I giovani comprendono subito il valore di chi insegna e, in generale, la serietà degli studi che affrontano. Se sono sostenuti economicamente dalla famiglia, spesso si iscrivono subito in una Università straniera, o abbandonano già dai primi anni quell'italiana, in cui avevano incominciato; oppure, ancora, dopo la laurea fanno un master all'estero: è la bancarotta del nostro sistema formativo accademico, mentre per i giovani universitari o laureati emigranti è una bella avventura. Studiare o lavorare in un altro Paese che sa fare differenze e premiare diventa una sfida entusiasmante che matura la crescita individuale: non è soltanto la questione di trovare un impiego, ma di essere apprezzati, stimati, valorizzati. E, a questo punto, a loro della patria non importa un fico secco se la patria è stata matrigna.
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