Non solo il Trota... Maledetti amati figli

L'addio del Senatùr e la Dynasty leghista: l'Italia del "tengo famiglia" è capace di commettere qualsiasi nefandezza pur di proteggere gli eredi

Non solo il Trota... Maledetti amati figli

Devo citare una seconda volta, nel giro di po­chi giorni, Leo Longanesi - gamba corta e vista lunga- perché nessuno meglio di lui sapeva leggere il presente e il futuro. Non ha fallito un colpo. Discutendo della bandiera italia­na, disse che il tricolore era perfetto. Bisognava solo so­stituire lo stemma sabaudo con un motto: «Ho fami­glia». In nome della quale tutti noi possiamo commet­­tere qualsiasi nefandezza. Umberto Bossi ne è l’ennesi­ma conferma. Poveraccio, dopo una vita agra spesa al­la ricerca di un posto al sole, nel suo caso il sole delle Alpi, è stato obbligato a tornare nell’ombra proprio a causa della famiglia, la sua.

La vicenda ha fatto rumore, è stata raccontata da tut­ti i media e sarebbe superfluo riassumerla in ogni aspetto. Ci preme soltanto sottolineare: il fondatore della Lega, pur essendo stato capace in un quarto di se­colo di creare un partito (con poche idee difficili da condividere, ma ricco di umori e insofferenze diffuse al Nord) che ha condizionato la storia del Paese negli ultimi vent’anni, non ha saputo resistere al richiamo del sangue. Si è comportato come coloro che aveva sempre combattuto: i terroni. I quali hanno un sacro concetto della famiglia, talmente sacro che una delle maggiori organizzazioni criminali del Mezzogiorno, la mafia, usava e usa ancora definirsi famiglia. Quelli che ne fanno parte sono uniti da vincoli strettissimi e affermati solennemente con riti di affiliazione mutua­ti dalle grandi religioni. Cose da pazzi. Che a Bossi però sono sempre piaciu­te, sia pure in chiave nibelungica. Indimenticabile il pellegrinaggio dei leghisti, taluni con elmo cornuto, sulle rive del Po, con l’acqua del quale furono riem­pite ampolle. Già. La mistica pada­na si esprimeva attraverso simboli e liturgie che a noi sembravano grotteschi, ma che agli adepti del Senatùr davano invece il senso del­la fraternità e dell’appartenenza a un gruppo di eletti.

Fin qui siamo al folclore, e ogni partito ha il proprio, più o meno buf­fonesco. La particolarità della Lega consisteva, fino a giovedì pomerig­gio, nella struttura di comando identica a quella di una famiglia pa­­triarcale: come il marchese del Gril­lo, Bossi era Bossi, e tutti gli altri non erano un cazzo: fantaccini, ser­venti. Lui dava gli ordini, i soldatini eseguivano. E chi sgarrava, fuori dalle balle. Perfino Gianfranco Mi­glio, esimio professore, politologo, fu messo alla porta con l’accusa di essersi montato la testa. Espulsioni analoghe sono state numerose.

Col trascorrere degli anni, le rego­le del C­arroccio si erano consolida­te e nessuno più osava non dico con­trastarle, ma nemmeno criticarle. Se non che, a un dato momento, il Senatùr ebbe un coccolone che lo tramortì e lo tenne lontano dalla fa­miglia ( moglie e prole) e dalla fami­gliona (camicie verdi). E qui è successo il patatrac. L’assenza del ca­po dalla scena si protrasse per oltre un anno e il vuoto fu riempito dalla consorte e dal cosiddetto cerchio magico in cui erano ammessi gli in­timi e i fedelissimi. Le parole di Bos­si giungevano alla base attraverso una catena di trasmissione forma­ta da tante bocche, ciascuna delle quali storpiava qualcosa, in buona o cattiva fede, e il discorso origina­rio del leader ne usciva capovolto. Ormai, contavano di più i portavo­ce della voce.

Il familismo, in questo quadro de­solante, prese il sopravvento sulle esigenze del partito che, pertanto, si avviò su una china pericolosa. Lo stesso Bossi fu influenzato dal cli­ma casereccio che respirava per molte ore al giorno. Ovvio, non era autosufficiente. Il vecchio condot­tiero, costretto a dipendere da chi gli stava attorno, si è lasciato anda­re a un eccesso di fiducia e ha finito per cedere alle pressioni dei con­giunti. Lo ha fatto con naturalezza, forse senza accorgersi dei rischi che correva, compreso quello di rendersi ridicolo. Un bel dì manife­stò l’idea di introdurre nella Lega una sorta di diritto dinastico per consentire al Trota di succedergli al vertice. Pareva una follia. E inve­ce, di lì a poco, il Trota venne eletto consigliere della Regione Lombar­dia.

Un sintomo chiaro di decadenza: Bossi non pensava più alla dignità e all’interesse esclusivo del movi­mento, ma al futuro incerto del fi­glio, non propriamente brillante e quindi bisognoso di farsi trainare dal padre. È più di un sospetto che il Senatùr abbia considerato il parti­to come una bottega di proprietà: se mollo io, mi subentra il primoge­nito. Questo è un effetto della filoso­fia italiota riassunta appunto da Longanesi col famoso motto: «Ho famiglia». È una debolezza che dob­biamo ammettere: ce l’abbiamo tutti. Per i figli si fanno figuracce. Se vanno male a scuola, ti sveni per mandarli a ripetizione. Li mantieni fino a 28 anni purché si laureino, salvo scoprire che devi continuare a mantenerli perché la laurea, se non hanno imparato un mestiere, è solo una pergamena buona per scrivere «dott.» sul biglietto di visita.

Chi ha un’azienda (negozio, offi­cina, industria eccetera) sogna di consegnarla agli eredi, i quali, poi, la distruggono, litigano, combina­no pasticci e di tutti i guai danno la colpa a mamma e papà. Sì, a loro. Che costruiscono una fortuna per la­sciarla ai bambini; ma i bambini, cresciuti, se hanno la strada in disce­sa non­sono manco in grado di supe­rare un cavalcavia. Se un padre è un bravo imprenditore, o un bravo poli­tico, non è detto che i discendenti si­ano altrettanto bravi: magari sareb­bero eccellenti pediatri o calciatori o sarti.

Perché volere a ogni costo che es­si partano avvantaggiati sfruttando il lavoro degli avi per il quale non so­no portati? In Italia non c’è niente da fare:mi danno l’anima,sopporto tutto, mi impegno perché «ho fami­glia ». Ma questi maledetti e amati ragazzi perché non li buttiamo fuori di casa a 20 anni, affinché si abitui­no a scegliere la professione a loro congeniale, fosse anche quella del­l’idraulico o del muratore? Figuria­moci, c’è sempre una mamma, una nonna o una zia che pretende di coc­colare il pupo finché non diventa un pupone senza arte né parte.

Quante ditte sono fallite perché affidate contro ogni logica imprenditoriale alla

prole? Quanti genitori si sono rovinati per assicurare ai fi­gli ciò che la progenie, viceversa, do­vrebbe guadagnarsi sul campo? Ec­co. Umberto Bossi è cascato così. Il suo epitaffio potrebbe essere: «Te­nevo famiglia».

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