Leggo stupefatto i commenti sul caso del ragazzino di Roma, 14 anni, che nella notte tra mercoledì e giovedì scorso si è dato la morte gettandosi dalla finestra di casa perché incapace di sopportare gli insulti e gli episodi di emarginazione subiti a causa della sua omosessualità. Solo Repubblica ne ha dato, ieri, la notizia.
Non ho letto quasi nessuna parola di dolore, di sconcerto, nessuna lacrima, nessun pensiero sul destino di questo poveretto voluto e amato da Dio nella sua natura di persona unica e irripetibile.
Come nei peggiori momenti degli anni Settanta, quando il motto «tutto è politica» intristiva e insanguinava le nostre giornate, la corsa delle dichiarazioni si è gettata sul tema della Legge sull'omofobia, la cui approvazione come tutti sanno è stata rinviata al nuovo anno sociale.
La legge, la legge! Questo sembra essere il solo problema interessante. E i soliti fiori sul luogo in cui questo ragazzo ha terminato i suoi giorni: i soliti tristi fiori pieni della solita pietà senza speranza.
Ma se tutti i politici e i portavoce dei vari movimenti si fossero dimostrati all'altezza di quei poveri fiori e della loro sconsolata carezza, forse potremmo rallegrarci, o quantomeno consolarci, al pensiero che le loro parole possano somigliare a una mano posata sulla spalla dei disgraziati genitori.
Invece i discorsi erano già pronti, i fucili carichi.
Ora, io (diversamente da alcuni amici) sono moderatamente favorevole alla Legge sull'omofobia. Nonostante alcune passate e ben note nefandezze, credo ancora che le leggi debbano essere a tutela di tutti i cittadini e non solo di una parte di essi, e penso che una buona legge sull'omofobia - una legge che non persegua reati d'opinione inesistenti e che consenta l'espressione di punti di vista diversi sulla natura e il destino dell'uomo - potrebbe sostenere la maturazione della coscienza civile di tutti.
Se però, di fronte a una tragedia come questa, un ringhio (la legge!, la legge!) è tutto ciò di cui si dimostrano capaci coloro che dovrebbero essere i primi a dimostrare un minimo di smarrimento, allora c'è poco da sperare nella buona legge. Qui il disastro è culturale, e di dimensioni spaventose. Perché è chiaro che dell'uomo, dell'uomo in carne ed ossa, di questo-uomo-qui sono ben pochi a dimostrare ancora un minimo d'interesse.
Chi sono io, diceva il Papa in Brasile, per giudicare un gay alla ricerca di Dio? Come sarebbe bello se queste parole, senza turbare le persuasioni di ciascuno, penetrassero nel cuore di tutti quelli che si accingono ad affrontare temi come questi! Personalmente, sono certo che quel ragazzo cercasse, dopo tanti abbracci negati, quello di Chi non potrà mai negargli abbracci e baci.
Ma una piccola riflessione s'impone. Quando frequentavo la quarta ginnasio, nel mio liceo di paese, avevo un compagno chiaramente omosessuale. Questo non produsse alcuna esclusione, anche perché a quattordici anni si è ancora bambini (per fortuna). In seguito ho avuto molti amici gay e la cosa non mi ha mai fatto problema: non perché io fossi anti-omofobo, ma semplicemente perché avevo un'idea chiara di cos'è una persona umana: una realtà non definita da me, unica e irripetibile. Non un'idea, non un'ipotesi, non un progetto, ma un corpo.
La mia domanda è: una volta smarrita questa dimensione inviolabile della persona umana, ciò che (temo per abitudine) continuiamo a chiamare «uomo» non è che una creta infinitamente manipolabile da ogni potere. E allora ci vogliono leggi, sempre più leggi, sempre più avvocati: non per proteggere l'uomo, ma per determinare le aree di potere.
E non escludo che l'ira ottusa che si scatena - oggi molto più di ieri - contro omosessuali, ragazze brutte, studenti scarsi,
occhialuti, brufolosi, e via dicendo (perché i ragazzi che si ammazzano per i motivi più diversi sono spaventosamente numerosi) - abbia origine anche in questo legalismo isterico che nega non solo Dio ma anche e soprattutto l'uomo.
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